
Ci voleva un micro batterio per farci scoprire che non siamo immortali e invincibili. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati smarriti, fragili e disorientati di fronte a uno tsumani emotivo mai sperimentato prima.
Senza preavviso alcuno, Covid 19 è piombato nelle nostre vite. E le ha sconvolte e ridimensionate, confinandoci nelle quattro mura domestiche diventate improvvisamente un rifugio di guerra. Perché questa è la nostra guerra. Quella che ci era stata risparmiata, a differenza dei nostri nonni, è arrivata con modalità e risvolti diversi, ma non è certo meno dolorosa e devastante.
La triste contabilità della pandemia fa annotare, ogni giorno, centinaia e centinaia di morti. Numeri sempre più crescenti, rimbalzati da un tg all’altro, da una conferenza stampa a un post sul web. Numeri da guerra, appunto. E numeri che non sono solo numeri. Perché dietro ogni numero c’è una persona, una vita vissuta, una storia. Migliaia di volti che resteranno sconosciuti. Troppi, per dedicare loro un ricordo dettagliato, un omaggio.
Nella prima linea della trincea, in questo inedito conflitto che questo altrettanto inedito ventiventi ci ha gettato addosso come zampilli di lava usciti da un vulcano impazzito, ci sono medici, infermieri, operatori sanitari, volontari, forze dell’ordine. Scesi nel campo di battaglia spesso disarmati e bersagli facili del nemico invisibile. Il Paese piange anche molti di loro. Vittime che si aggiungono a vittime, drammi che diventano infiniti.
Una guerra senza colpi di mortaio e case sventrate dalle bombe, ma con gli stessi effetti psicologici. Le stesse identiche ricadute economiche. Gli identici interrogativi su quando e come finirà. Le simili incertezze sul dopo.
Una guerra che, una volta terminata, richiederà una ricostruzione esattamente come accade con gli eventi bellici. La ricostruzione di un’intera economia, ma anche di una rete sociale andata in frantumi in poche settimane, impallinata senza la possibilità di schivare i colpi.
Ci voleva un virus dalla forma persino aggraziata, tanto da essere chiamato corona quasi ad evocare qualcosa di nobile, a farci entrare in un incubo dove non c’è più spazio per i progetti e i programmi, per i banali gesti di tutti i giorni, per la routine che spesso abbiamo maledetto.
Se vogliamo, però, dentro questo tunnel dove siamo sprofondati possiamo trovare l’opportunità di crescere come individui e come comunità. Ripensando i nostri modelli di vita, ricucendo gli strappi nei rapporti e guardando gli altri con occhi diversi.
Possiamo farlo e dobbiamo farlo. Ora che siamo consapevoli che un micro batterio può darci una pesante lezione di vita.