La scelta profonda di vivere in clausura

Il monastero di Santa Chiara di Anagni accoglie, tra le sue antiche mura, tre nuove sorelle che faranno voto di povertà, castità, obbedienza e clausura. 

Sono suor Beatrice, suor Noemi e suor Cecilia, tutte provenienti dal Nicaragua, che durante la cerimonia prevista nella Cattedrale di Anagni venerdì 11 febbraio alle 17.30, presieduta dal vescovo Lorenzo Loppa, abbracceranno la professione temporanea. Una scelta di vita, quella della clausura, profonda e particolarmente significativa, soprattutto in un momento di crisi delle vocazioni.

Nel convento dedicato alla santa di Assisi, vivono diciotto suore guidate dalla giovane abadessa Madre Fedele Subillaga, anche lei proveniente dal Nicaragua, definita «una monaca spontanea, umile e molto materna che ha il dono di coltivare i talenti delle figliole per farli fiorire, con la grazia di Dio, alla luce della vita consacrata». E su quest’ultima, Madre Fedele si esprime con le parole di Papa Francesco: «La vita consacrata è questa visione. È vedere quel che conta nella vita. È accogliere il dono del Signore a braccia aperte, come fece Simeone. Ecco che cosa vedono gli occhi dei consacrati: la grazia di Dio riversata nelle loro mani. Il consacrato è colui che ogni giorno si guarda e dice: “Tutto è dono, tutto è grazia”. Cari fratelli e sorelle, non ci siamo meritati la vita religiosa, è un dono di amore che abbiamo ricevuto».

Diverse, tra di loro, le storie delle novizie che si apprestano a consacrare la propria vita a Dio, un evento atteso con gioia nel monastero. Suor Beatrice, nata a Matagalpa, era una brava dentista. Ora, nella comunità delle clarisse, cura con grande premura due suore anziane inferme. Suor Noemi proviene da una famiglia numerosa di profonda fede e ha 37 anni. Nel suo paese era maestra d’asilo.

È dotata di un forte senso artistico che esprime principalmente nella eccellente lavorazione delle ostie. La vocazione è nata all’età di 15 anni, perché quando vedeva le suore provava una gioia profonda. Suor Cecilia è nata in un paese vicino Darío e proviene da una famiglia devota alla Vergine di Fatima. Esegue molti lavori pratici, ma il talento si fa notare soprattutto in cucina. Le sue ricette? Ugualmente divise tra specialità italiane e centroamericane.

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Una mattanza senza fine

Con quale spirito e stato d’animo, ma soprattutto con quali numeri arriviamo a celebrare la Giornata per l’eliminazione della violenza sulla donna del 25 novembre? Purtroppo con le statistiche drammatiche di ogni anno.

Ad oggi sono 103 le donne uccise quest’anno, di cui 87 uccise in ambito familiare o affettivo. Sessanta di esse hanno perso la vita per mano del partner o dell’ex. E mentre gli omicidi nel 2021, in Italia, diminuiscono anche se di poco (-2%), passando da 251 a 247, le vittime femminili aumentano: nel 2020 erano state 97 (+ 6%). Segno più anche per le donne uccise dal compagno, attuale o passato: da 57 a 60.  

Neanche l’ultima legge “Codice rosso” in vigore da agosto 2019, contenente le modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, ha fermato la mattanza.

E anche se tutte le donne non denunciano il partner per le violenze subìte, si deve a malincuore registrare che quasi mai rivolgersi alle forze dell’ordine le salva dalla morte.

Cosa c’è che non va nel nostro sistema giudiziario se ogni 2-3 giorni una donna viene uccisa in quanto tale (da qui il termine femminicidio)? E cosa non quadra nella società se è incapace di tutelare una potenziale vittima e di arginare la violenza messa in atto dagli uomini?

Violenza che non è solo fisica. E’ anche sessuale e psicologica.  

Quante parole si spendono, ad ogni 25 novembre, per esaminare e sviscerare quella che, ormai non si può più definire un’emergenza ma che è piuttosto uno zoccolo strutturale che non si riesce a scardinare?

Una giornata che celebriamo dal 1999, data scelta dall’Onu non a caso. Il 25 novembre 1960, nella Repubblica Dominicana, le sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) furono uccise dai militari del dittatore Rafael Lonidas Trujillo. Prima di morire, vennero picchiate e stuprate. La loro colpa? Non si piegavano al dittatore, che eliminava chiunque si opponesse al suo potere.

Da allora, e sono passati oltre sessanta anni, poco è cambiato. Sicuramente gli scenari, il modo di vivere, le condizioni sociali e culturali, ma non la logica del potere e della sopraffazione. E non potremo mai dire di vivere un Paese civile se la mente degli uomini, di certi uomini, non cambierà.                 

Bambini scomparsi, non solo Denise

Da qualche settimana è tornato sotto i riflettori il rapimento di Denise Pipitone, scomparsa il primo settembre 2004 da Mazara del Vallo quando aveva appena 4 anni. La vicenda di Olesya, la giovane russa che ha lanciato in tv un appello per ritrovare la mamma, diventata subito un caso mediatico, ha riacceso per qualche giorno le speranze di ritrovare Denise dopo 17 anni. Speranze naufragate in un contesto di spettacolarizzazione del dolore che ha avuto l’unico merito di far tornare alla ribalta un caso contraddistinto da omertà, bugie, indagini superficiali e dubbi mai risolti.       

Ma quanti sono i bambini che spariscono in Italia ogni anno? Nel 2020, le denunce per scomparsa di minori sono state 7.762 (5.511 stranieri), molte delle quali con riferimento a sottrazioni che avvengono all’interno delle famiglie dopo la separazione dei genitori e a fughe volontarie. Non tutti i bambini sono stati ritrovati (oltre la metà), non tutte le scomparse hanno avuto l’eco mediatico del caso Denise e molti altri drammi restano ancora avvolti nel mistero.  

Come il caso di Angela Celentano, scomparsa durante una gita con la famiglia a Vico Equense, nel Napoletano. Era il 10 agosto del 1996, la bambina aveva tre anni. Le indagini degli inquirenti si concentrarono, in un primo tempo, sulla famiglia della piccola. Si sospettò di uno zio e di alcuni suoi amici, una pista che non portò a nulla. Nel 2007, undici anni dopo la scomparsa, un cappellino simile a quello che la bambina indossava il giorno della gita venne ritrovato in una villa vicino al luogo del rapimento, ma anche questa traccia si rivelò labile. Nel 2010 fu percorsa la pista messicana. I genitori di Angela ricevettero una mail proveniente dal Messico firmata da una certa Celeste Ruiz che affermava di essere Angela. La ragazza non fu mai trovata così come la piccola scomparsa. Le indagini sono chiuse da tempo.

Un altro caso drammatico riguarda la scomparsa di Mauro Romano avvenuta ben 44 anni fa a Racale, in provincia di Lecce. Nonostante il lungo tempo trascorso da quando il piccolo, a 6 anni, sparì senza lasciare tracce, c’è ancora la speranza di conoscere la verità. La magistratura ha avviato nuove indagini per sequestro di persona e si sono concluse lo scorso dicembre concentrandosi su un uomo di Racale, già sospettato in passato di aver partecipato alla fase iniziale del rapimento del bimbo. Amico di famiglia dei Romano, secondo gli inquirenti avrebbe prelevato Mauro mentre giocava in un cortile con altri bambini davanti alla casa dei nonni, per poi consegnarlo ad altre persone. Una svolta dovuta alla determinazione della famiglia, che in 44 anni non ha mai perso le speranze di conoscere la sorte del figlio, e del loro avvocato Antonio La Scala che segue il caso con competenza professionale ma anche con grande sensibilità umana. Sembra destinata a finire in un vicolo cieco, invece, il sospetto di mamma Bianca che Mauro sia oggi Mohammed Al Habtoor, il cosiddetto “sceicco”, in realtà un ricco imprenditore di Dubai, che secondo la donna avrebbe le stesse cicatrici del bambino scomparso nel Salento.      

Un giallo che rimane tale è la scomparsa delle gemelline Alessia e Livia Shepp avvenuta il 30 gennaio 2011 da Saint Sulpice dove vivevano con la madre separata dal marito, Mattia Kaspar Schepp, che si è ucciso qualche giorno dopo gettandosi sotto un treno alla stazione di Cerignola. L’uomo, dopo essere andato a prendere le figlie, aveva iniziato un viaggio in auto incomprensibile: si dirige a Marsiglia, da dove invia una cartolina all’ex moglie scrivendole che non riesce a stare senza di lei, poi sale su un traghetto per la Corsica, quindi raggiunge Bastia e da lì si imbarca per Tolone. Dalla Francia arriva in Italia. E sceglie di togliersi la vita in Puglia. Delle piccole gemelle, che all’epoca del fatto avevano 6 anni, non si è saputo più nulla.   

Storie drammatiche di cui la cronaca si è occupata per molto tempo e che ha gettato nell’angoscia mamme e papà colpiti dal più grande degli incubi: non sapere dove sono finiti i loro bambini. Che sono diventati i figli di tutti.

La battaglia per Fortuna, uccisa di botte dal marito

Fortuna Bellisario è una delle tante, troppe donne uccise dal proprio uomo. Aveva 36 anni, tre figli di 7, 10 e 11 anni, una casa popolare in via Mainella a Napoli e un marito che la picchiava perché accecato dalla gelosia.

Il 7 marzo 2019, il giorno prima della festa delle donne, Vincenzo Lopresto ha impugnato una stampella ortopedica in ferro e ha colpito Fortuna fino ad ucciderla. Poi ha chiamato i soccorsi. Inutili.  

La prima ispezione del corpo ha evidenziato le conseguenze dei maltrattamenti subiti per anni. Soprattutto lividi e zone del cuoio capelluto scoperte. Segni pregressi delle botte che sono state una costante nel matrimonio di Fortuna e Vincenzo. Fino alla morte.  

Una morte che, secondo i giudici, non è stata provocata volontariamente. Lopresto,  infatti, è stato giudicato per omicidio preterintenzionale: rito abbreviato e una condanna di primo grado a 10 anni di reclusione. Ma Vincenzo, l’uomo ossessionato dalla gelosia, in carcere c’è stato ben poco.

Dopo neanche due anni, nei giorni scorsi è stato messo agli arresti domiciliari, che sconterà nella casa della madre nel rione Sanità. Una decisione, presa perché l’uomo non è ritenuto pericoloso socialmente, che ha indignato parenti e amici della donna. Una decisione fortemente contestata anche con manifestazioni e striscioni davanti al tribunale e contro la quale si sta battendo l’associazione “Le forti guerriere” di Napoli.

“Non vogliamo vendetta – dicono le rappresentanti dell’associazione – ma la giustizia non può far lasciare il carcere così presto ad un uomo che ha sempre picchiato la moglie fino al tragico epilogo”.

Una battaglia che è appena all’inizio. Per Fortuna, per tre bambini rimasti orfani e per tutte le donne uccise che non hanno ottenuto giustizia.                    

Oltre mezzo secolo di solidarietà verso gli ultimi

Il 7 febbraio la Comunità di Sant’Egidio compie 53 anni. Oltre mezzo secolo di solidarietà verso i più deboli. Un cammino sempre più spedito con l’obiettivo di una società più giusta.

“Quest’anno – spiegano i responsabili dell’associazione – non è possibile celebrare con grandi incontri, ma non rinunciamo ad una festa che è soprattutto un rendimento di grazie. Per questo vi invitiamo ad unirvi online alla liturgia celebrata dal cardinale Matteo Zuppi a Santa Maria in Trastevere il 6 febbraio alle ore 19,30, che verrà trasmessa in streaming multilingue sul sito della Comunità e sulla pagina Facebook. La festa sarà diffusa in tutti i paesi del mondo in cui è presente la Comunità, insieme ai tanti poveri che ci sono amici e che negli ultimi mesi hanno vissuto maggiori sofferenze per gli effetti della pandemia”.

Chi sono questi amici? I senza fissa dimora che vivono un inverno lungo e difficile, gli anziani, le famiglie impoverite per la crisi, le persone con disabilità i migranti per i quali continuiamo a chiedere corridoi umanitari, un modello sostenibile in Italia e in Europa. E ancora i bambini di strada africani, i detenuti, i minori delle periferie seguiti nelle Scuole della Pace, oggi ancora di più a rischio di dispersione e abbandono scolastico.

“Un particolare pensiero – aggiungono dalla Comunità – lo rivolgiamo anche a tutti i popoli che ancora oggi soffrono per la grande ingiustizia delle guerre ancora in corso, della violenza diffusa e del terrorismo”.

Il messaggio, in occasione del 53esimo anniversario della fondazione è “Nessuno può salvarsi da solo”. Era il titolo dell’incontro internazionale per la pace, vissuto in piazza del Campidoglio il 20 ottobre scorso, alla presenza di Papa Francesco, con i rappresentanti di tutte le religioni, ma è anche un programma per ripartire nel cuore di una pandemia che fatica ad essere vinta.

“C’è tanto da fare – concludono i responsabili di Sant’Egidio – e abbiamo negli occhi tante immagini di dolore, come quelle che arrivano dalla Bosnia dove tanti giovani migranti soffrono per il freddo e l’inaccoglienza. Ma ci sono anche tanti motivi di speranza: se è cresciuta la povertà è aumentato in modo sorprendente anche il sostegno di tanti amici, e il numero di volontari, in gran parte giovani, che si sono affiancati a noi per aiutare e accompagnare chi vive momenti difficili”.

La Via Francigena compie 20 anni all’insegna della solidarietà

La Via Francigena, il più importante percorso di pellegrinaggio italiano, compie 20 anni.

Un traguardo che sarà festeggiato con una serie di iniziative, a cominciare da un grande evento itinerante. Si tratta di Road to Rome 2021, una marcia che dal 15 giugno al 18 ottobre interesserà tutta Europa passando per la capitale italiana.

A promuoverlo è l’Associazione Europea delle Vie Francigene (AEVF) in occasione del 20° anniversario della sua fondazione. “Vuole essere – spiegano gli organizzatori – un grande momento di festa, una lunga marcia a staffetta, da percorrere a piedi e in bicicletta, lungo i 3.200 km della Via Francigena. Il bordone del pellegrino prenderà il posto della fiaccola olimpica, e sarà portato, tappa per tappa, lungo l’intero cammino”.

In programma anche un pellegrinaggio di gruppo che coinvolgerà soltanto il tratto italiano della Francigena (circa 1000 km che uniscono il Gran San Bernardo al soglio di San Pietro).  Questa iniziativa si chiama InSuperAbili, una staffetta all’insegna dell’inclusione che dal 20 agosto al 19 settembre 2021 vedrà protagonisti camminatori o ciclisti con patologie e disabilità.

L’idea è della Libera Accademia del Movimento Utile, una onlus fondata nel 2014 dal cardiologo Gabriele Rosa per promuovere il movimento come pratica terapeutica per le categorie più deboli.

Parteciperanno alla manifestazione ASD Rosa Running Team, la squadra dilettantistica creata nel 2000 da Gabriele Rosa per accogliere atleti con disabilità e patologie; Se Vuoi Puoi, associazione per lo sport praticato dai malati di sclerosi multipla; PedalAbile, associazione che mette al centro il disabile come persona.

Naturalmente tutti potranno partecipare alla staffetta per celebrare i 20 anni della Francigena e vivere un’esperienza di solidarietà.

Violenza sulle donne, una guerra di tutti

Ogni due giorni e mezzo in Italia viene uccisa una donna. Sta nella crudezza di questa statistica l’entità del fenomeno del femminicidio, come si definisce l’omicidio di una donna in quanto tale. Dati che vanno ad incrementare quando si tiene conto delle varie forme di violenza, sia fisica sia psicologica, che quotidianamente le donne subiscono.

Se ne è parlato sabato scorso a Fiuggi nel convegno “M’ama non m’ama” organizzato dal centro antiviolenza “Fammi rinascere”, con interventi della responsabile Michaela Sevi, sociologa e assistente sociale, delle psicologhe Nadia Loreti e Roberta Cassetti e dell’avvocato Donatella Ceccarelli e i saluti, per conto del Comune termale, del vice sindaco Marina Tucciarelli e dell’assessore Simona Girolami.

Dal primo contatto con la vittima che si rivolge al numero verde del centro alla legislazione che regolamenta i reati connessi  alla violenza sulle donne, passando per le dinamiche che si sviluppano nelle coppie a rischio e ai numeri agghiaccianti di quella che è diventata una vera e propria emergenza sociale, il centro di Fiuggi ha offerto ancora una volta l’occasione di riflettere, evidenziando la necessità di non abbassare la guardia e di fare rete per combattere una guerra spesso invisibile ma cruenta. Un impegno che deve essere assunto da tutti. Da una società intera.

I dati più recenti dell’Istat parlano chiaro: il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).

Ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila), in particolare il 5,2% (855 mila) da partner attuale e il 18,9% (2 milioni 44 mila) dall’ex partner. La maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%). In particolare, per il 41,7% è stata la causa principale per interrompere la relazione, per il 26,8% è stato un elemento importante della decisione.

Il 24,7% delle donne ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale da parte di uomini non partner: il 13,2% da estranei e il 13% da persone conosciute. In particolare, il 6,3% da conoscenti, il 3% da amici, il 2,6% da parenti e il 2,5% da colleghi di lavoro.

Numeri dietro ai quali ci sono volti, storie, sofferenza, solitudine e le difficoltà di una società ancora poco reattiva a un fenomeno che è soprattutto culturale, nonostante nel tempo siano comunque cresciute sensibilizzazione e informazione. Ecco perché è importante parlarne, diffondere messaggi chiari e mirati, lavorare su più fronti per aiutare chi è la vittima innocente principale, ma anche chi quella violenza la subisce indirettamente. Come i bambini costretti a vivere in un ambiente violento o, nel peggiore e più frequenti dei casi, da orfani con la mamma morta e il padre in carcere.     

La riflessione di don Domenico sul dopo-Coronavirus

Parte dalle parole di Matteo (6,26-27) la riflessione di monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti, sul dopo-Coronavirus, riportata in una lettera pastorale che ci permette di avere il punto di vista di un religioso illuminato, grande conoscitore della comunicazione, su quello che è e sarà la nostra vita in questo particolare momento storico.

Matteo diceva: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?”.

Monsignor Domenico Pompili

Il presule, originario di Acuto in provincia di Frosinone, commenta riportando l’opinione di suo padre quando ascolta queste parole: “Sfido io che gli uccelli hanno da mangiare! Si mangiano quello che semino io”.  E aggiunge: “Nella reazione istintiva del contadino si riflette la mentalità dell’uomo che fa da sé. L’esatto contrario di quello che Gesù lascia intendere. Mai come ai tempi della pandemia siamo stati ricondotti all’essenziale: la vita è un dono fragile e nessuno può disporne. L’esito di questa consapevolezza è vivere senza ansia perché la garanzia della vita non sta nella nostra disponibilità. L’uomo, infatti, vive anzitutto di ciò che riceve, a cominciare dalla vita. Non è l’accumulo che ci preserva, ma la serenità di vivere giorno per giorno. Concentrarsi sul possesso è miope perché vale di più condividere con gli altri. Anche perché non serve a nulla vivere nell’oro se intorno a noi è il deserto. È illusorio pensare di star bene in un mondo malato”.

Che significa, dunque, essere capaci di osservare gli uccelli del cielo? “Vuol dire – spiega don Pompili – assumere un atteggiamento contemplativo che è il dono inatteso che abbiamo ricevuto dal tempo “sospeso” del coronavirus. Papa Francesco aveva affermato nella Laudato si’ che una nuova ecologia umana ha bisogno di contemplazione e non solo di tecnologia. Solo a condizione di essere capaci di fermarci a guardare e ascoltare, o meglio a contemplare, possiamo riconoscere le contraddizioni alle quali ci troviamo esposti, al di là delle nostre sempre più potenti capacità di fare e di agire. Certo, cinque anni fa l’Enciclica non aveva previsto il coronavirus, ma già invitava a non mettere la testa sotto la sabbia e far finta di non vedere quello che non va”.

E il vescovo entra nel merito del dopo-lockdown per chiedersi: “Siamo pronti a non lasciarci risucchiare dalla routine, ma a prendere coscienza che qualcosa è definitivamente cambiato e costringe anche noi a rivedere prassi, abitudini, tic mentali?”.

Perché secondo il vescovo di Rieti sono almeno tre le cose che non saranno più come prima.

“La prima è la fine dell’individualismo becero. Nessuno può immaginarsi a partire soltanto dal proprio “io, qui e ora”. Lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle a partire dalla connessione che si è manifestata tra noi e gli altri nel momento in cui abbiamo realizzato che nessuno se la cava da sé. E, per contro, che ciascuno dipende nel bene e nel male dall’altro”.

La seconda è un diverso rapporto con il tempo e con lo spazio. “Grazie ai nuovi linguaggi digitali – secondo don Domenico – il mondo è diventato improvvisamente più breve e più stretto e ci ha indotto a cambiare sguardo sulla realtà. Pensate a quanto meno abbiamo inquinato evitando i nostri spostamenti inutili, più vicini all’agitarsi inoperoso che a un agire costruttivo”.

Infine, l’aver individuato i problemi e le relazioni vere. “Abbiamo avuto la possibilità – scrive il vescovo nella sua lettera pastorale – di chiarire il falso dal vero problema, concentrandoci sull’essenziale: salute, affetti, fede, sorvolando su questioni effimere e secondarie”.

Di qui l’esigenza profonda di “non disperdere nel giro di poco tempo quel prezioso senso di solidarietà e di comunità che abbiamo visto essere la fonte della resilienza”.

Coronavirus, quella silenziosa strage di anziani

Le mani nodose, le rughe che solcano il viso, gli occhi stanchi, i movimenti impacciati. Sono i nostri anziani. Stroncati dentro le case di riposo, vittime di una straziante ecatombe.

Qui il Covid-19 ha picchiato duro e in silenzio, attaccando corpi già compromessi da malattie e usure dell’età.

Falcidiati a centinaia nei luoghi dove si aspettavano cure e attenzioni, trasformati all’improvviso in moderni lager per condannati a morte.

Erano i nostri anziani. Nonne e nonni, madri e padri con alle spalle storie diverse, eppure tutti così uguali.

Sembra di immaginarli. Con le mani tremanti e le gambe trascinate, i capelli radi e argentati, le camicie a quadretti e i maglioncini a colori pastello, i plaid abbandonati sui letti, lo sguardo smarrito e l’attesa costante di una visita.

Tanti, troppi di loro, finiti nella colonna di ambulanze che nella notte li preleva dalla casa di riposo e li porta in ospedale con ritardi fatali per la maggior parte di loro.

Soli, fragili, spaventati, ormai definitivamente lontani da figli, nipoti, fratelli e da ogni parvenza di vita. Una vita pur sempre da vivere, per quanto breve.

Morti che resteranno per sempre sulle coscienze. Perché stavolta il killer non è soltanto quel Coronavirus che da mesi controlla e stravolge le nostre esistenze. Perché stavolta qualcosa è andato maledettamente storto in quelle comunità, diventate drammatici focolai.

Morti che più delle altre devono farci riflettere. E vergognare.  

Coronavirus, la solitudine dei vivi e dei morti

Con quanti sentimenti dobbiamo confrontarci in questo assurdo periodo di pandemia? Troppi. Si affacciano, vanno via, tornano, ti sovrastano, padroneggiano, scandiscono ogni minuto della vita, di una vita che non è più ancorata a nulla.

Angoscia, tristezza, paura, incredulità, dolore, ma anche speranza e voglia di farcela. Sentimenti e sensazioni che si rincorrono e si intrecciano. Un mix inedito di percezioni che entrano ed escono dalla testa, dal corpo, dal cuore.

Dobbiamo farci i conti ogni giorno, mentre ascoltiamo e leggiamo i bollettini di guerra che ci raccontano di morti, giovani e anziani, con malattie pregresse e sani, poveri e ricchi, sconosciuti o famosi, settentrionali e meridionali, a testimonianza del fatto che Covid 19, il nemico invisibile che ha invaso l’umanità intera, è democratico e se ne sbatte delle frontiere e delle dichiarazioni dei redditi.

Ma c’è un sentimento che, più degli altri, simboleggia il dramma che ci ha colto a sorpresa. E’ la solitudine. Dei vivi e dei morti.

L’isolamento sociale, imposta come arma per sconfiggere la diffusione di un contagio che nessuno poteva prevedere negli anni della tecnologia rampante e della ricerca medica all’avanguardia, ci ha reso tutti un po’ più soli.

Lontani da amici e familiari, distaccati da colleghi e conoscenti, nonni che incontrano i nipoti soltanto con le videochiamate quando, più di altri, avrebbero bisogno di un abbraccio.

Ma nessuna solitudine sarà devastante come quella vissuta da chi si ammala e muore di Coronavirus. Un percorso che annulla i contatti fisici con i familiari, una via crucis che non prevede resurrezione.

L’addio, per i più fortunati, pronunciato dietro un telefono cellulare tenuto in mano da un infermiere generoso.

Una solitudine che continua nell’ultimo viaggio. In una bara anonima che, nei casi più agghiaccianti, verrà trasportata da un mezzo militare incolonnato in un macabro e triste corteo.

Italia, anno 2020. Non sembra così lontano il Regno di Napoli nel 1656, flagellato dalla peste, con il suo carico insopportabile di morte. E di solitudine.

Coronavirus, questa è la nostra guerra

corona

Ci voleva un micro batterio per farci scoprire che non siamo immortali e invincibili. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati smarriti, fragili e disorientati di fronte a uno tsumani emotivo mai sperimentato prima.


Senza preavviso alcuno, Covid 19 è piombato nelle nostre vite. E le ha sconvolte e ridimensionate, confinandoci nelle quattro mura domestiche diventate improvvisamente un rifugio di guerra. Perché questa è la nostra guerra. Quella che ci era stata risparmiata, a differenza dei nostri nonni, è arrivata con modalità e risvolti diversi, ma non è certo meno dolorosa e devastante.

La triste contabilità della pandemia fa annotare, ogni giorno, centinaia e centinaia di morti. Numeri sempre più crescenti, rimbalzati da un tg all’altro, da una conferenza stampa a un post sul web. Numeri da guerra, appunto. E numeri che non sono solo numeri. Perché dietro ogni numero c’è una persona, una vita vissuta, una storia. Migliaia di volti che resteranno sconosciuti. Troppi, per dedicare loro un ricordo dettagliato, un omaggio.

Nella prima linea della trincea, in questo inedito conflitto che questo altrettanto inedito ventiventi ci ha gettato addosso come zampilli di lava usciti da un vulcano impazzito, ci sono medici, infermieri, operatori sanitari, volontari, forze dell’ordine. Scesi nel campo di battaglia spesso disarmati e bersagli facili del nemico invisibile. Il Paese piange anche molti di loro. Vittime che si aggiungono a vittime, drammi che diventano infiniti.

Una guerra senza colpi di mortaio e case sventrate dalle bombe, ma con gli stessi effetti psicologici. Le stesse identiche ricadute economiche. Gli identici interrogativi su quando e come finirà. Le simili incertezze sul dopo.

Una guerra che, una volta terminata, richiederà una ricostruzione esattamente come accade con gli eventi bellici. La ricostruzione di un’intera economia, ma anche di una rete sociale andata in frantumi in poche settimane, impallinata senza la possibilità di schivare i colpi.

Ci voleva un virus dalla forma persino aggraziata, tanto da essere chiamato corona quasi ad evocare qualcosa di nobile, a farci entrare in un incubo dove non c’è più spazio per i progetti e i programmi, per i banali gesti di tutti i giorni, per la routine che spesso abbiamo maledetto.


Se vogliamo, però, dentro questo tunnel dove siamo sprofondati possiamo trovare l’opportunità di crescere come individui e come comunità. Ripensando i nostri modelli di vita, ricucendo gli strappi nei rapporti e guardando gli altri con occhi diversi.

Possiamo farlo e dobbiamo farlo. Ora che siamo consapevoli che un micro batterio può darci una pesante lezione di vita.

A Foggia barbiere gratis per i senzatetto

notizie smile

Lunedì è il suo giorno di riposo come per tutti i barbieri e i parrucchieri, ma Gianni Sciotta lo trascorre nel suo negozio anche se per un servizio diverso.

Nella mattinata di lunedì, Gianni Sciotta e il suo staff si dedicano a Foggia ai senzatetto. Per loro lavaggio e taglio dei capelli senza passare alla cassa.

Un gesto di grande solidarietà e senza voler apparire. A rendere noto il gesto di Gianni è stata l’associazione “Fratelli della Stazione” di Foggia che si occupa dei poveri della città.

barbiere Su Facebook oggi hanno scritto: “Grazie a Gianni Sciotta ed al suo staff, questa mattina un gruppo di poveri e senza dimora hanno potuto usufruire di taglio e lavaggio dei capelli e della barba. Un modo per riacquistare maggiore dignità, per riappropriarsi della loro immagine migliore e per sentirsi più inseriti nella nostra comunità”.

Un dettaglio non da poco: il nuovo look è piaciuto molto a chi ha usufruito del servizio.  

Sedotta e sclerata, il messaggio di Ileana

Da molto tempo seguo sui social Ileana Speziale e ho sempre avuto la curiosità di incontrarla. Una giovane donna bella e solare diventata ambasciatrice di un messaggio importante per chi, come lei, è affetto dalla sclerosi multipla, ma anche per chiunque incontri nella vita difficoltà e ostacoli.

L’occasione di incontrare Ileana si è presentata negli studi dell’ emittente radiofonica di Anagni Radio Hernica, dove è stata invitata per parlare del suo libro “Sedotta e Sclerata” come sta facendo in un lungo tour in tutta Italia.

Praticamente un’opera autobiografica con cui, attraverso la storia di Emily, Ileana Speziale ci fa conoscere il significato profondo di una parola che mi piace molto: resilienza. La volontà, in pratica, di trovare dentro di noi la forza interiore per superare i drammi della vita e trasformarli in opportunità. La capacità di assorbire un trauma senza andare in mille pezzi.

Nella chiacchierata con Marco Tagliaboschi, Ileana ha raccontato la sua storia, i suoi sogni, le finalità del suo libro. Trovate tutto nel video, buona visione.

Panettone “sospeso” per chi non può comprarlo

Non solo il caffè, anche il panettone è sospeso. E’ la bella abitudine di lasciare qualcosa di pagato a chi non può permettersi di acquistarlo. E se il caffè sospeso è targato Napoli, lo stesso gesto di solidarietà con il panettone parte da Milano, la culla del famoso dolce natalizio.

L’iniziativa è stata lanciata dal sindaco Beppe Sala, che è diventato un vero e proprio testimonial del progetto, insieme all’associazione Panettone Sospeso ETS e chi desidera partecipare, fino al 22 dicembre, può recarsi nelle pasticcerie associate (identificabili dal logo di ETS) e comprare un panettone che viene poi lasciato in negozio. Per ogni dolce acquistato, la pasticceria ne aggiungerà uno a sua volta. Il 23 dicembre, tutti i panettoni donati verranno raccolti e consegnati dall’associazione alla Casa dell’Accoglienza Jannacci, in viale Ortles 69.

L’Associazione Panettone Sospeso ETS è un’organizzazione no profit che è nata proprio per raccogliere e donare panettoni a persone in stato di indigenza a  Milano, e consentire loro di celebrare il Natale con il dolce della tradizione. Partendo dal presupposto che ogni anno sono sempre di più le persone che si trovano a vivere sotto la soglia di povertà. Il panettone può così diventare un piccolo gesto per aiutare le persone in difficoltà.

Queste le pasticcerie che hanno aderito al Panettone Sospeso:

Alvin’s – via Melchiorre Gioia, 141
Davide Longoni – via Gerolamo Tiraboschi, 19
Giacomo – via Pasquale Sottocorno, 5
Moriondo – via Marghera, 10
Massimo 1970 – via Giuseppe Ripamonti, 5
San Gregorio – via San Gregorio, 1
Sant Ambroeus – corso Giacomo Matteotti, 7
Ungaro – via Ronchi, 39
Vergani – via Mercadante 17 e corso di Porta Romana 51.

I miei comfort food. E come li preparo io

Un’altra mia grande passione, oltre a quello del giornalismo – che in realtà è una professione, ma come si dice? Trova un lavoro che ti piace e non lavorerai neanche un giorno della tua vita – è sicuramente la cucina. Sì, lo confesso: non mi perdo un cooking show, so tutto di Carlo Cracco, Antonino Cannavacciuolo, Bruno Barbieri, Norbert Niederkofler, Massimo Bottura, Nadia Santini, Heinz Beck e Annie Féolde solo per nominare i più celebri, un ristorante stellato mi attira più di una boutique di Gucci e mi commuovo davanti ad una zizzona di Battipaglia.

Il cibo, in generale, è consolatorio, sopperisce alle malinconie, stuzzica i ricordi, coccola, soddisfa palato e anima. Ma alcuni piatti lo sono in modo particolare e ognuno di noi ha i suoi. Non a caso si chiama comfort food. E vi racconto i miei, di comfort food, cinque per la precisione, con qualche piccola annotazione. Tranquilli, non voglio annoiarvi con le solite ricette che ormai si trovano dappertutto, aggiungerò soltanto brevi commenti personali. Della serie: come li cucino io.

Al primo posto c’è sicuramente la pasta e fagioli. Mi piace aggiungere un pezzo di cotica, i borlotti sono sempre di quelli da ammollare e non rinuncio ai ditalini rigati.

Segue il purè di patate. E’ molto importante, oltre alla scelta del tipo di patata – deve essere farinosa e bianca – che il burro sia a temperatura ambiente. E aggiungo soltanto latte biologico.

Come può mancare la lasagna rossa? Per me deve essere semplice, con pochi ingredienti. Punto tutto sul sugo, bello denso e profumato di basilico, non necessariamente con la carne, e sulla mozzarella che deve essere di qualità. No all’aggiunta di besciamella, che amo invece nella lasagna bianca.

E’ lei, sua maestà la polenta. Farina di mais a kilometro zero (che utilizzo anche per fare la tradizionale pizza rossa da abbinare ai broccoletti), salsicce e spuntature dal macellaio di fiducia. In alternativa, ma anche se ne avanza un po’, al forno con il gorgonzola come mi hanno insegnato gli amici milanesi.

Per i golosi come me, tutti i dolci sono comfort food. Ma devo ancora trovarne uno più buono del tiramisù. La versione classica resta un must. Le rivisitazioni alla fragola o al limone? Non le disdegno, ma l’originale non si batte.

Bene, questi sono i miei comfort food. E i vostri quali sono?

Dolci invenduti regalati ai bisognosi

Il gesto di solidarietà questa volta arriva dalla Sardegna, esattamente da Quartu Sant’Elena. Nicola Loi, titolare della pasticceria Miky’s Dream Bakery, ogni sera lascia fuori dal locale i dolci invenduti (nella foto sotto), mettendoli a disposizione di chi non può permettersi di acquistarli.

Un gesto che aiuta, ma che evita anche l’odioso spreco alimentare, un fenomeno ancora eccessivo.

Miky’s Dream Bakery, racconta Fanpage, ha annunciato l’iniziativa attraverso un post su Facebook, che dice “Ogni sera alla chiusura lasceremo appesi fuori dei pacchetti con il non venduto! Per chi volesse…”. Chiunque, dunque, può cogliere questa occasione senza entrare in pasticceria con imbarazzo. Nicola e i suoi collaboratori sistemano i loro prodotti dentro numerose borse. E a quanti fanno notare che le buste con i dolci potrebbero essere prese da chi non ne ha nessun bisogno ma vuole solo risparmiare, la pasticceria risponde: <Abbiamo messo in conto anche quello ma non importa, facciamo questo lavoro con il cuore e buttare del cibo ci farebbe veramente male>.

Laureato in… generosità

A 26 anni si è laureato con 110 e lode alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università di Messina. E come regalo ha chiesto ad amici e parenti di pagare le tasse universitarie a due amici studenti poco abbienti. Il bel gesto di solidarietà è di Piero Dotto, 26enne di Letojanni, in provincia di Catania. Che ha scelto così di festeggiare il conseguimento della laurea, raggiunta con la discussione della tesi “Sindrome di Joubert: aspetti clinici, genetici e neuroradiologici”.

Piero Dotto

Il neo dottore ha pensato a due studenti che non hanno le possibilità economiche di proseguire gli studi per garantire loro un futuro accademico. Piero Dotto, raccontano chi lo conosce, è “un ragazzo semplice, perfettamente integrato nel tessuto sociale della cittadina letojannese, ed anche in quello parrocchiale dove fa parte della Confraternita di San Giuseppe e dell’Azione Cattolica”.

Ora che ha ottenuto la laurea, Piero terrà tre mesi di tirocinio per conseguire l’abilitazione alla professione e successivamente proverà a superare l’esame di ammissione per la specializzazione in nefrologia, reumatologia e dialisi.

Donano le ferie al collega con il figlio malato

Un operaio delle acciaierie Ast di Terni ha un figlio minorenne malato e, data la gravità della patologia, si adopera per assisterlo. Ma finisce le ferie e i permessi per farlo. E’ a questo punto che scatta la solidarietà dei colleghi e dei sindacati.

Rsu e rappresentanti dei metalmeccanici di Fim, Fiom e Uilm incontra la direzione aziendale per chiedere un accordo grazie al quale i colleghi possono donare giorni di riposo al dipendente in difficoltà. 

Un episodio singolo che, però, potrebbe diventare strutturale. Entro il 31 gennaio 2020 le parti torneranno ad incontrarsi per verificare se ci sono le condizioni per realizzare lo strumento della banca ore ferie e permessi “solidali” a favore di chi ne ha bisogno.

<Come organizzazioni sindacali – spiegano  le sigle impegnate nel caso – riteniamo tale iniziativa importante e lodevole certi che, a fronte di casi eccezionali come questi, i lavoratori di Ast non faranno venir meno il proprio contributo e attenzione nel solco della storia e dei valori solidali del movimento dei lavoratori stessi>.

Buon compleanno al Maestro della Tarsia

Oggi Carlo Turri avrebbe compiuto 83 anni. E ne sono passati due da quando il Maestro della Tarsia non c’è più. Anagnino doc ed artigiano di eccellenza, Turri ha lasciato ricordi indelebili in chi lo ha conosciuto, ma soprattutto ha tramandato le sue opere, realizzate intarsiando legno rigorosamente a mano. Le lavorava nella sua bottega-esposizione a pochi passi dalla maestosa Basilica Cattedrale di Anagni, dove la figlia Rita continua l’attività del creativo padre, dal quale ha ereditato talento e amore per l’arte antica dell’intarsio.

Carlo Turri era un artista che amava moltissimo la sua città, perennemente impegnato a farla conoscere, sempre in prima linea quando si trattava di promuoverla, mettendo a disposizione non solo la sua arte, ma anche la sua voce di cittadino. Che alzava spesso e volentieri quando riteneva che non si facesse abbastanza per aiutare i turisti a conoscere la Città dei Papi. Si batteva molto, Carlo Turri, per migliorare la sua Anagni.

A favore del turismo, sicuramente Turri ha dato un importante contributo. Difficile che un turista diretto alla Cattedrale non entrasse a dare un’occhiata alla sua bottega, attirato da quei quadri in legno caldi ed espressivi e, di recente, anche dai raffinati gioielli realizzati con la stessa tecnica, che hanno segnato l’evoluzione dell’arte di Turri. Bottega che è stata sempre anche mèta di molte personalità in visita ad Anagni e set di varie trasmissioni televisive che hanno voluto intervistare Turri per conoscere da vicino il suo modo di intarsiare. Ed ancora oggi, grazie a Rita Turri, quella mostra rappresenta un ottimo biglietto da visita per chi sceglie di conoscere Anagni.

Ma Carlo Turri non era solo un artista del legno. Era anche un uomo di grande simpatia con le sue indimenticabili battute in dialetto. Tanto che per molti anni ha fatto parte del Gruppo Teatrale Anagnino, all’interno del quale era tra gli attori più amati e divertenti. La presenza scenica e una naturale propensione alla goliardia hanno fatto sì che Turri diventasse un punto di riferimento anche nel teatro locale (VIDEO).

Carlo Turri ha dato molto e in più ambiti, con una grande generosità. Per questo sicuramente Anagni non ha dimenticato uno dei suoi figli più talentuosi. Buon compleanno, Maestro della Tarsia.

Il libro per bambini di nonno Paul McCartney

Un nonno di eccezione. E’ Paul McCartney, il grande bassista dei grandi Beatles, baronetto, eclettico compositore, ma anche uomo sempre in prima linea a sostegno di associazioni benefiche per i diritti umani e degli animali. Paul, che ora ha 77 anni, è nonno di 8 nipotini. Ed è pensando a loro che ha scritto il libro illustrato “Hey Grandude”, giocando nel titolo con la canzone “Hey Jude”

<L’ho scritto – ha spiegato il famoso Beatle – per i nonni di tutto il mondo e per i bambini, in modo da dargli qualcosa da leggere loro prima di metterli a dormire>.

Non è il suo primo libro. Nel 2005 Paul McCartney aveva collaborato con Dunbar e Philip Ardagh alla stesura di un altro volume per bambini, “High in the Clouds”, che sta per diventare un cartone animato. Ora si cimenta, da nonno molto amato da tutti i suoi nipotini, in un libro con illustrazioni dell’artista canadese Kathryn Durst e pubblicato dalla Random House Kids.

Una performance, neanche a dirlo molto attesa quasi come lo erano i dischi dei Beatles, di cui McCartney è estremamente orgoglioso e che ha motivato così su Twitter: <Perché questa idea? Perchè ho otto nipoti, tutti bellissimi. Una volta uno di loro mi ha chiamato “Hey Grandude!”, da quel momento è diventato il mio soprannome. Allora mi sono detto che poteva essere una bella idea per un libro. Perciò ho iniziato a scrivere delle storie e ne ho parlato con gli editori che erano contenti di quello che stavo facendo. Principalmente il protagonista sarà un personaggio chiamato Grandude, che rappresenterà tutti i nonni, che vivrà tantissime avventure con i suoi nipoti>.

Buon compleanno, Maestro Gismondi

Il suo principale cruccio era quello di non essere considerato abbastanza nel suo paese, Anagni. Lui che aveva installato opere in tutto il mondo, ricevendo apprezzamenti ovunque, guadagnandosi anche l’appellativo di “scultore del Papa” per aver realizzato lavori per Paolo VI e Giovanni Paolo II come le porte della Biblioteca e dell’Archivio del Vaticano, il cofanetto per le chiavi delle Porte Sante, le monete della città del Vaticano e molto altro. Lui era Tommaso Gismondi, uno dei più grandi scultori del XX secolo, nato il 28 agosto 1906 e scomparso il 26 aprile 2003. Nemo profheta in patria, ripeteva spesso. Lo diceva con amarezza, ma aveva anche un carattere – per molti, un caratteraccio – che gli permetteva di infischiarsene.

Ho conosciuto Tommaso Gismondi quando lavoravo per il quotidiano “Il Tempo”, si faceva intervistare volentieri, e per gli anni a venire sono andata spesso a trovarlo nel suo laboratorio-museo a ridosso della Basilica Cattedrale di Anagni, nell’angolo che ora è intitolato a lui, dove la nipote Valentina continua a tenere viva la memoria del famoso nonno, ma anche della mamma Donata, figlia dello scultore e sua unica allieva, che ha avuto la fortuna di ereditarne i geni artistici. Ho molti ricordi di Donatella (così era chiamata da tutti) e del padre. Le piacevoli chiacchierate in mezzo ai bozzetti dei bronzi plasmati da Tommaso con indosso il grembiule azzurro, la risata genuina di Donatella quando il padre sparava qualche parolaccia, i racconti dello scultore sulla sua vita intensa, gran parte trascorsa in Argentina prima di decidere di stabilirsi nella città che gli aveva dato i natali e che amava, i suoi progetti senza limiti anche ad età avanzata.

Ho pensato a lui in questi giorni per l’approssimarsi del suo compleanno, il 28 agosto, una data impressa nella mente perché per molto tempo gli ho fatto gli auguri personalmente o al telefono. E ricordo che lui spesso ringraziava commentando: “Sono ancora vivo alla faccia di chi mi vuole male”.

Non era un segreto che Tommaso Gismondi percepisse ostilità da parte dei concittadini, ma soprattutto delle “autorità” che, lo diceva sempre, non gli permettevano di realizzare opere per la sua città. Lui che aveva firmato il portale di bronzo nella chiesa più antica di Parigi, a Montmartre, e sculture monumentali a Santo Domingo, in Australia, in Brasile, in Argentina e in molti altri Paesi. Lui che aveva ricevuto nel suo studio, il 31 agosto 1986, Papa Giovanni Paolo II in occasione della visita pastorale del pontefice ad Anagni. Un privilegio riservato a pochi che Gismondi rivendicava con orgoglio e sottolineava con la mega fotografia che ha immortalato il suo abbraccio con Carol Wojtyla in quella speciale occasione, posizionata all’ingresso del museo permanente.   

 A sedici anni dalla morte, per Anagni il nome di Tommaso Gismondi resta comunque un vanto, sicuramente rivalutato da molti perché il tempo stempera incomprensioni e conflittualità e senza dubbio un punto fermo dell’arte del ventesimo secolo.


Buon compleanno, Maestro. Alla faccia di chi ti ha voluto male.

Il cane che accompagna i bambini in sala operatoria

Si chiama Serena ed è un cane di razza Bassett  Hound, considerata ottima per la compagnia e in particolare propensa a stare con i bambini dato il carattere affettuoso e gioioso dei suoi esemplari, originariamente utilizzati per la caccia.

Da qualche settimana Serena svolge una missione straordinaria: accompagna i bambini in sala operatoria all’ospedale Santa Maria di Firenze, attende che l’intervento finisca e si fa trovare pronta al risveglio del piccolo. Lo fa due volte al mese nell’ambito di un progetto di pet therapy finanziato dall’associazione Onlus “Vorrei prendere il treno” di Iacopo Melio attraverso una raccolta di fondi che ha riscosso notevoli adesioni.     

«I bambini ospedalizzati – ha spiegato Marco Pezzati, direttore dell’area pediatrica aziendale, al quotidiano La Stampa – hanno accolto molto bene questa iniziativa, che li aiuta a vivere al meglio un momento difficile e a dimenticare il disagio del post-intervento e superare così la paura della stanza d’ospedale. I genitori hanno particolarmente apprezzato l’iniziativa perché ha contribuito a rendere più piacevole il ricovero ospedaliero dei loro bambini. Anche il personale medico e infermieristico è molto soddisfatto dell’iniziativa che considera un valido supporto nella gestione dei piccoli pazienti e si augura che Serena e gli operatori dell’Associazione possano nel prossimo futuro aumentare i giorni di frequenza nel reparto di Pediatria. Auspico – ha aggiunto Pezzati – che iniziative del genere si possano replicare anche negli altri reparti pediatrici della nostra Azienda; è ormai dimostrato che nel percorso di cura anche dei piccoli pazienti la vicinanza degli animali da compagnia rappresenta un eccezionale sostegno».

La pet therapy, letteralmente terapia dell’animale da affezione, si affianca a tradizionali cure, trattamenti e interventi socio-sanitari. E’ un intervento sussidiario che aiuta, rinforza, arricchisce e coadiuva le tradizionali terapie e può essere impiegata su pazienti di qualsiasi età e affetti da diverse patologie con l’obiettivo, sempre raggiunto, di migliorare la qualità della vita.

Oltre ai cani, nella pet therapy vengono impiegati soprattutto cavalli e delfini, per la gioia di bambini e adulti.

Anna Vita, diva suo malgrado

“Diva suo malgrado” perché non amava stare sotto i riflettori, veniva presa dal panico quando doveva girare una scena, sul set non si trovava a suo agio. Rifuggiva la notorietà, Anna Vita, star dei fotoromanzi e del cinema nel dopoguerra, per oltre trenta anni titolare dell’albergo La Coccinella di Anagni. Fuggì proprio in Ciociaria quando, delusa dall’ambiente dello spettacolo, decise di cambiare vita dedicandosi a quello che era il suo vero amore, la scultura e la pittura. Un talento ereditato dal padre Mario.

Nei giorni scorsi, parlavo di lei con l’amico e collega Ivan Quiselli che aveva ritrovato un mio vecchio articolo, intitolato appunto “Anna Vita, diva suo malgrado”, convenendo di ricordarla in qualche modo a quasi dieci anni dalla morte.

Ho conosciuto Anna nel suo albergo, andando a trovare degli amici che soggiornavano da lei. Non passava inosservata, la signora della Coccinella, da tanti vista come stravagante, forse anche un po’ strana. Nonostante la differenza di età, facemmo subito amicizia e ci siamo viste spesso nella sua casa adiacente all’albergo. Una casa-museo. Piena di ricordi, di foto, di opere realizzate dal padre e da lei di cui andava molto orgogliosa. Era di queste che amava parlare, non del cinema che pure le aveva portato successo e fama grazie ai film interpretati con Totò e Vittorio De Sica e diretti da registi del calibro di Michelangelo Antonioni, Giorgio Simonelli, Steno, Mario Monicelli. Mi diceva: “Mi ritenevo inadeguata, negata per il cinema, impreparata e non ho mai capito cosa ci trovassero in me. Non riuscivo neanche a memorizzare le battute, non era la mia strada. In realtà ho sempre sognato di diventare una giornalista>.

Non si sentiva bella, Anna Vita. Eppure, per il suo fascino, veniva chiamata “La Greta Garbo dei poveri” o “La malattia degli italiani” e aveva ammaliato anche importanti attori. Ed aveva carattere, Anna. Nel 1952 Federico Fellini le offrì la parte di protagonista nel film “Lo sceicco bianco” (interpretato poi da Brunella Bono), ma lei non accettò perché la pellicola ironizzava sull’ambiente da cui proveniva, il fotoromanzo, litigò con il regista e ne andò in America dalla sorella, chiudendo definitivamente con lo star system. Dopo 18 anni arrivò ad Anagni dove ha vissuto fino a dicembre 2009, quando se ne è andata dopo un breve periodo di malattia. Aveva 83 anni.

L’ho vista per l’ultima volta sei, sette mesi prima. Mi aveva cercato per parlarmi di un suo progetto: creare una grande scultura, raffigurante l’albero della vita, da posizionare nel parco che circondava l’albergo, da inaugurare con una festa alla presenza di tanti bambini. Era entusiasta dell’idea, mi disse che ci stava già lavorando, chiedendomi di aiutarla per l’organizzazione. Non fece, non facemmo in tempo.

La morte, comunque, non la spaventava. “Sono già morta una volta”, mi aveva detto in un’intervista. Raccontando di quando, nel 1990, durante un intervento chirurgico, si era ritrovata lungo un viale celeste dove c’era tanta gente che conosceva. Si sentiva felice. Arrivata a metà di quel viale, era però tornata indietro risvegliandosi nel letto di ospedale. “In questa esperienza ho trovato sollievo e non dolore – disse – e quindi credo che la morte sia un grande piacere”.

Era nata in Calabria, Anna Vita, ma aveva vissuto molto a Roma, una città che amava ma che non le mancava perché preferiva vivere in campagna, a contatto con la natura, con i suoi cani e i suoi ricordi, lontana dalle copertine e da un mondo che non le apparteneva. Aveva scelto, semplicemente, di essere se stessa. Forse anche un po’ strana, ma fedele alla sua personalità.

Le fotografie da… mangiare

Il cibo è senza dubbio uno dei principali piaceri della vita. Lo testimonia la crescita esponenziale di format televisivi con al centro la cucina (alcuni di essi diventati trasmissioni cult), l’aumento di spesa per l’acquisto di prodotti di qualità, la continua ricerca di nuove cotture e sperimentazioni in cucina.

Sull’onda di tale tendenza, è nata anche l’arte foodscapes, parola nata dalla fusione di food (cibo) e scape (paesaggio), che vuol dire fotografare alimenti e creare un panorama. Re assoluto di questa nuova espressione è Carl Warner, 56 anni, inglese, che trascorre il suo tempo nei negozi alimentari e nei mercati per selezionare i soggetti delle sue foto. Poi li compra e li porta nel suo studio, dove li fotografa singolarmente e, insieme ad una squadra di food stylist, costruisce quelli che appaiono come veri e propri quadri. Coloratissimi e stuzzicanti.

Nelle sue fotografie trovi di tutto: patate, melanzane, broccoli, pomodori, prosciutto, carote, spezie. Il tutto trasformato in scenari naturali dove l’occhio umano spazia e fa mille scoperte.   

Sin da piccolo Carl Warner si dedica alla pittura, con disegni che ritraggono un mondo fantastico, ispirandosi a Dali, Patrick Woodroofe e alle copertine d’album di Roger Dean. Dopo aver studiato arte al college, da Liverpool si trasferisce a Londra per studiare fotografia, film e televisione. Dopo anni di esperienza, si specializza in paesaggi alimentari costruiti con ingredienti naturali. Ingredienti che, una volta fotografati, non vengono certo sprecati. Vengono, infatti, consumati da Warner e dai suoi collaboratori o dati in beneficenza.

Il Bestiario di Facebook (parte 2)

Il repertorio degli utenti di Facebook è talmente vasto da richiedere una seconda parte del suo Bestiario, che ogni giorno si arricchisce di frasari e immagini postati fino allo sfinimento, a conferma che quella famosa mamma non usa anticoncezionali.

L’epiteto che va più di moda: rosiconi

Non è più possibile esprimere una propria opinione, soprattutto se si parla di politica. Arriva subito il genio di turno a darti del rosicone, che quasi sempre diventa sinonimo di piddino (anzi, di pidiota). Inutile spiegare che si può anche dissentire senza rodimenti e senza avere in testa tessere di partito o di quel partito.

La cura per i rosiconi: il Bruciakul

Dopo la diagnosi, la terapia. A chi rosica si consiglia di lenire le irritazioni con la pomata Bruciakul. Spesso viene prescritta anche per i tifosi di calcio.

L’epiteto che non passa di moda: buonisti e radical chic

Altre accuse ricorrenti soprattutto verso chi si schiera dalla parte dei più deboli oppure osa contrastare i pensieri di quelli che “portateli a casa tua”.  Quando il confronto è a senso unico.

I tuttologi

Sono quelli che ci capiscono. Di tutto. Sempre pronti a dare la propria ricetta per ogni evenienza. Le loro conoscenze non conoscono confini, soprattutto quelli della ridicolaggine.

Quelli che non leggono o non capiscono ciò che leggono

Commentano come i cavoli a merenda. Si limitano a guardare solo i titoli di un post o di una notizia, non perdono tempo a leggere tutto, smaniosi di far conoscere al mondo la propria opinione. Oppure non capiscono un’acca di quello che è scritto. Risultato: parole al vento, soprattutto quelle di chi tenta (inutilmente) di fargli capire che si trova fuori tema. O fuori di testa.

I cuochi da tastiera

Postano ogni cosa che cucinano, novelli Masterchef che nel 99% dei casi l’appetito te lo tolgono.

Le parole che sfiancano

Vergogna. Non ci sono parole. Buttate le chiavi. Dimissioni! Mi vergogno di essere italiano. Adesso basta! Prima gli italiani.
Se avessimo avuto un centesimo ogni volta che abbiamo letto queste espressioni saremmo diventati ricchi.