
Conosco Antonio Fiore da molti anni, per lavoro ho seguito diverse sue mostre e ho ammirato subito le sue opere, oltre ad apprezzare la persona: umile come sanno essere soltanto i grandi e con la marcia in più della simpatia e del sorriso. Non a caso, lui ama dire: “Sono come i miei quadri: colorato, dinamico e solare. E cerco di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno”.
Autoritratto perfettamente calzante per un artista che, a 82 anni, continua a dipingere ancora con la voglia di sperimentare. Portando sempre in alto lo pseudonimo di Ufagrà con cui è conosciuto nell’ ambiente artistico, dove è noto anche per essere l’ultimo pittore futurista vivente. Nato a Segni, ex dirigente di industria, nel 2018 ha festeggiato i 40 anni di carriera.

Un traguardo eccezionale. Puoi fare una sintesi di questo lungo periodo?
Dall’ incontro con Sante Monachesi, nel 1977, mai avrei immaginato tanta evoluzione. Fino al 1984 sono stato suo allievo nel movimento Agrà a cui avevo aderito e successivamente ho firmato la “Dichiarazione di Futurismo Oggi” di Enzo Benedetto insieme agli altri futuristi viventi. Quella fu per me una grossa sterzata perché le frequentazioni avute in quel contesto, come ad esempio con le figlie di Balla, hanno creato in me la convinzione che il movimento futurista cessa nel 1944 con la morte del fondatore Marinetti, ma l’idea del futurismo non si esaurisce storicamente perché non è una scuola d’arte, bensì un’attitudine, un modo di intendere la vita. Non ci sono limiti temporali, perché l’evoluzione è continua. Con l’avvento della macchina, della locomotiva e dell’industrializzazione c’è la velocità, con l’invenzione dell’aereo c’è l’aeropittura e con la conquista dello spazio abbiamo la cosmopittura. Quindi, se dovessi racchiudere 40 anni di carriera in una parola, direi proprio evoluzione.

Monachesi non è stato, però, il tuo vero maestro in quanto in assoluto lo è stato Giacomo Balla che sicuramente ha influenzato il tuo percorso artistico. Un percorso iniziato come?
Ero un piccolo collezionista di opere d’arte e un gallerista mi propose l’acquisto di un quadro di Monachesi. Ero molto interessato, ma dissi al gallerista che lo avrei preso soltanto se Monachesi mi avesse fatto una dedica. E così lo incontrai, si parlò di futurismo e del movimento Agrà. Mi coinvolse molto, avevo una grande passione e da lì iniziò una collaborazione durata parecchi anni.
Fu lui a ideare per te lo pseudonimo di Ufagrà. Cosa significa esattamente?
Sì, lo ideò facendo il verso a Marinetti che usava dare a tutti un altro nome. U sta per universo in quanto il movimento Agrà è universale, F per il cognome Fiore e Agrà come il movimento.
In Italia sei l’ultimo futurista. Vuol dire che i giovani non trovano interesse per questo genere di arte?

Ho moltissimi estimatori giovani, alle mostre sono l’80-90% dei visitatori, ma nessun allievo. C’è stato un ragazzo che sembrava interessato, si chiamava Enzo Bozzi e veniva a trovarmi in studio a farmi vedere le sue creazioni realizzate con il polistirolo, ma è stata una vicinanza passeggera.
A 82 anni continui a lavorare e anche ad inventare nuovi abbinamenti. Di recente lo hai fatto con le “Battaglie cosmiche” utilizzando l’acciaio riflettente. Hai in programma altri connubi tra colori e materiali?
In realtà, dopo l’acciaio ho inserito il plexiglass colorato ed è l’ultima novità. Si trova in dieci quadri che dovevano essere esposti in una mostra in programma a Roma, nella galleria Vittoria di via Margutta, il prossimo 14 ottobre, ma è stata rinviata a causa del Covid. La faremo quando sarà possibile.
Come e dove trovi queste ispirazioni?
Mi vengono spontaneamente, sono pensieri che arrivano all’improvviso. Ci ragiono su, faccio i bozzetti e metto l’idea in pratica.
Il bilancio della tua attività artistica è indubbiamente positivo, con all’attivo 70 mostre di successo in tutta Italia e all’estero, numerosi riconoscimenti e citazioni su importanti pubblicazioni specializzate. Sei stato presente a Palazzo Venezia, al Padiglione Italia-Regione Lazio della 54esima Esposizione d’Arte Internazionale della Biennale di Venezia. Ufagrà è soddisfatto di quanto fatto finora?
Sono molto contento. Vivo l’arte con passione e parto dal presupposto che non devo piacere per forza. Faccio quello che sento. Ad esempio, l’opera che ho dedicato a Samantha Cristoforetti, è nata perché sentivo l’orgoglio di italiano e volevo dirglielo in questo modo.
Mi sembra di capire che è molto importante, per te, essere libero di esprimerti come vuoi, seguendo soltanto il tuo amore per l’arte.
Sono stato sempre libero. Mai un compromesso.