Lidia Vivoli è una donna molto bella che porta sul corpo e nella mente i segni di una violenza inaudita. Otto anni fa è stata in balìa per tre ore di un uomo che voleva ucciderla. Era l’uomo che Lidia intendeva lasciare dopo una relazione iniziata come una favola e finita nel sangue. Quella notte, era il 24 giugno 2012, il principe azzurro si è trasformato in uno spietato aguzzino. Ha colpito Lidia alla testa con una bistecchiera di ghisa, le ha infilzato un paio di forbici nella schiena e nell’addome, ha cercato di strangolarla con un filo elettrico, l’ha presa a pugni e calci. Le ha rotto il setto nasale, uno zigomo, un timpano. Nel parare i colpi la donna si è ferita ad una coscia e ha riportato lesioni in tutto il corpo. Oggi ha ancora molte difficoltà fisiche e soffre di fibromialgia. Lidia Vivoli, 49 anni, siciliana di Bagheria, ex hostess, è una sopravvissuta. L’uomo che l’ha aggredita è stato condannato per tentato omicidio e sequestro di persona a 4 anni e mezzo di reclusione, ma ha trascorso solo cinque mesi in carcere ed attualmente è sotto processo per stalking, sempre nei confronti di Lidia Vivoli.
Una notte di violenze che ha cambiato la tua vita. Ma com’era Lidia prima di quel tentato femminicidio?
Ero un’assistente di volo nella compagnia aerea Wind Jet, avevo una casa ed ero sposata con un biologo marino. Stavo bene, mi mancava solo un figlio. Poco prima del nostro decimo anniversario di matrimonio, mio marito mi ha lasciato senza alcun motivo evidente. Un’esperienza che mi ha devastato.

Poi c’è stato l’incontro con l’uomo che, a distanza di un anno, avrebbe tentato di ucciderti?
Sì. E probabilmente mi sono aggrappata a lui proprio per dimenticare la fine del mio matrimonio. Lui era un grande corteggiatore, si presentava alle 5 in aeroporto solo per prendere un caffè insieme, mi faceva ridere, era sempre pieno di attenzioni. Non potevo immaginare la sua vera natura. Non avevo alcun segnale negativo.
Siete andati subito a vivere insieme?
Accadde quando io venni trasferita da Palermo a Catania. Lui era un barman, anche bravo, in quel periodo non lavorava molto. Pensò che Catania potesse offrirgli qualche opportunità e affittai una casa vicino all’aeroporto iniziando una convivenza. Lavoravo soltanto io, ma lui si occupava della casa e per me andava bene, ma poi cominciarono a capitare cose strane. Per esempio, spesso sparivano soldi in casa, se ci restavano cento euro lui ne spendeva 85 per comperarsi una camicia. Un giorno, e siamo arrivati a gennaio 2012, mi chiese di poter vedere il mio cellulare, gli disse se stava scherzando. Per tutta risposta mi prese il polso e me lo piegò, mi sbatté la testa al muro fino a farmi svenire. Andai in ospedale, tre giorni di prognosi. Lui se ne andò, ma mi mandava in continuazione messaggi minatori. Ad aprile 2012 ho avuto un incidente sul lavoro e sono tornata a Bagheria. Ci vedevamo ancora e i suoi atteggiamenti strani continuavano. Mi rubava i soldi, mi chiamava puttana e mi picchiò di nuovo facendomi finire in ospedale. A pronto soccorso dissi di essere caduta dalle scale.

E’ stato in quel periodo che hai maturato la decisione di lasciarlo?
Sì, ero ancora presa ma volevo lasciarlo. Ormai neanche viveva più con me.
Poi è arrivato quel maledetto giorno. Cosa è successo?
Mi chiese di andare a messa insieme a Tindari, in provincia di Messina. Portai con noi anche mia sorella e trascorremmo una bella giornata. Tornando a Bagheria incontrammo un traffico pazzesco e, per evitarlo nel rientrare a casa sua, lui chiese di restare da me. La sua presenza mi dava fastidio, ma evitai di contrastarlo. Era comunque calmo e tranquillo, tanto che quella notte dormimmo abbracciati. Ad un certo punto, mi ha spostato dicendo di dover andare in bagno. Ho guardato l’orologio, era l’una e quarantacinque. All’improvviso ho sentito un colpo alla testa e un forte dolore. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Me lo sono ritrovato davanti con una bistecchiera di ghisa in mano. Mi ha colpito alla nuca 4 o 5 volte finché non si è rotto il manico. Fortunatamente dormivo con la pancia in sotto e, come mi hanno detto poi i medici, ho una scatola cranica molto resistente.
Appena hai realizzato che ti stava colpendo, cosa è accaduto?
Mi ha subito colpito con le forbici nella schiena, ricordo di aver sentito il rumore della carne che si lacerava. Ho cercato di difendermi e le forbici mi hanno colpito al sopracciglio, mentre lui mi afferrava alla testa. Poi ha preso il filo dell’abat jour, ho capito che mi voleva strangolare ma non riuscivo a muovermi dallo spazio angusto in cui mi teneva. Mi sono mossa un po’ e ho rotto la lampada, infatti altre ferite le ho avute anche perché mi ha trascinato sul pavimento pieno di vetri. Mi sbatteva la testa ovunque, il sangue era dappertutto. Ha preso il filo del ventilatore, me lo ha messo in bocca e sono riuscita a toglierlo. Mi ha preso a pugni in faccia, rompendomi il setto nasale e un timpano. E poi mi ha infilato le forbici nell’addome, cercando di mettersi sul mio corpo per farle entrare completamente. Nell’ultimo tentativo di difendermi, ho colpito le forbici per farle uscire e mi sono squarciata una coscia.
Come sei riuscita ad uscire da questo inferno?
Quando ho potuto, gli ho stretto i testicoli con le mani. Solo a questo punto si è allontanato, dolorante. Mi sono accucciata sul letto e ho cominciato a pregare. Avevo paura che si riprendesse perché sapevo che non avrei avuto la forza di reagire.
Eppure ce l’hai fatta.
Quando si è ripreso ho fatto come fanno i negoziatori nei film. Gli ho parlato in modo rassicurante mentre tutto mi girava intorno e sentivo il rumore del mio respiro affannato. Gli dicevo che non mi aveva fatto nulla di grave, che non lo avrei denunciato. E lui, minacciandomi di morte se avessi parlato, se ne è andato. A quel punto ho chiamato il 118 e mia madre. All’arrivo dei soccorsi ho detto subito chi era stato, lo hanno arrestato mentre dormiva a casa sua. Ha patteggiato una pena di quattro anni e mezzo, ma è stato in carcere solo cinque mesi prima dei domiciliari in attesa del processo. E quando è uscito ha continuato a perseguitarmi, mi seguiva e una volta mi ha picchiato staccandomi un labbro perché ho rifiutato le sue avance. L’ho denunciato ed è sotto processo per stalking. Per ora sta buono proprio perché c’è un processo in corso, ma ho paura di quello che potrebbe accadere dopo. Non ha mai chiesto scusa, non si è pentito e me l’ha giurata.
Dove hai trovato la forza per superare questa orribile esperienza?
Per un anno mi sono chiusa in me stessa, mi sentivo in colpa anche per il dolore causato a mia madre, che è stata molto male. Immagina cosa significa per una madre dover pulire il sangue della figlia in casa. Poi ho riflettuto e mi sono chiesta perché ero viva. Forse perché dovevo aiutare altre donne. E questa è diventata la mia missione.
E’ grazie a te se Codice Rosso, il provvedimento di legge entrato in vigore l’anno scorso per tutelare maggiormente le vittime di violenza, se sono stati allungati da 6 a 12 mesi i tempi per presentare denuncia. In che modo questo viene incontro alle donne maltrattate?
Ho lanciato una petizione raccogliendo 151 mila firme e la proposta è diventata legge. Denunciare è difficile, soprattutto perché quando si arriva ad un processo la donna, che è la vittima, spesso viene giudicata, umiliata e vessata come ha detto il capo della Polizia, Gabrielli. Bisogna essere forti per denunciare e serve tempo per decidere, in sei mesi non tutte ce la fanno. Il Codice Rosso, comunque, è solo un gradino e noi dobbiamo arrivare alla vetta di un grattacielo.
Cosa avrebbero bisogno veramente le donne per uscire da certe situazioni? Le istituzioni fanno abbastanza?
Occorre che la donna venga supportata concretamente con un lavoro e una casa dove ricominciare a vivere con i figli. Oggi cosa si fa? Si rinchiude la donna nella casa famiglia dove non si può neanche guardare la televisione, dove non c’è neppure la chiave del bagno. La vittima viene privata della sua libertà mentre l’aguzzino spesso è libero, anche di fare male di nuovo. Mentre dovrebbe stare in carcere fino al processo oppure fuori ma controllato davvero, magari con il braccialetto elettronico. E poi ci sono premi, permessi, riduzioni di pena. A loro è concesso tutto, ma a noi? Dico sempre che dovremmo essere trattate come le vittime di mafia che sono maggiormente tutelate. Ma non interessa a nessuno perché le vittime sono donne comuni.
Cosa consiglieresti a una donna che trova sulla sua strada un uomo violento? Di scappare al primo schiaffo?
Deve scappare prima, non si deve arrivare allo schiaffo. Perché prima dello schiaffo ci sono stati scuramente altri campanelli d’allarme. La donna deve pretendere rispetto, il rispetto che si deve a tutti. E che andrebbe insegnato a scuola come specifica materia, chiamiamola educazione sentimentale.
Dopo la tua drammatica storia di violenza, hai incontrato Salvo Ventimiglia, che già conosciamo per la battaglia che da anni conduce per sapere la verità sulla sorella Giusy, scomparsa misteriosamente nel 2016. Avete due bellissimi gemelli di 4 anni e mezzo, un maschio e una femmina. I bambini sanno cosa ti è accaduto?
Ai miei figli ho fatto vedere le foto che mi hanno scattato dopo l’aggressione e ho spiegato che una persona malvagia voleva fare del male alla mamma. Credo sia gusto che sappiano che fuori dalla loro casa, dove sono riempiti d’amore, c’è anche il male.
Hai raccontato com’eri prima del tentato omicidio. E la Lidia di oggi che donna è?
Una donna molto più forte, ma che ha paura di tutto.