Da Roma agli Usa, cronaca di un successo

Una professionista estremamente eclettica, un’italiana emigrata all’estero che ce l’ha fatta. Maria Teresa De Donato, romana, da quasi 25 anni vive in Texas e da poco ha pubblicato il suo primo romanzo dal titolo “Oceano di sensi”. Una nuova esperienza, dopo i numerosi libri scritti nell’ambito del suo lavoro. La dottoressa De Donato è naturopata, life strategist, coaching olistico e spirituale e molto altro.

Come è iniziato il suo percorso professionale?

Sono vissuta, ho studiato e lavorato a Roma fino agli inizi del 1995, quando mi sono trasferita negli Usa.  I miei genitori, che erano amanti della cultura, dei libri, delle lingue e dei viaggi, mi fecero studiare inglese sin da bambina. Questo ha spianato la strada agli studi linguistici e turistici. Finite le scuole medie, mi sono iscritta all’Istituto Tecnico per il Turismo, diplomandomi all’I.T.T.  J.F.Kennedy dove all’inglese si sono affiancati il francese ed il tedesco. Dopo il diploma ho proseguito con l’Università, Facoltà di Magistero, Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne, che però ho abbandonato alla fine del secondo anno per mancanza di interesse. Dal 1980 al 1982 ho studiato anche giornalismo alla Scuola Superiore di Giornalismo Accademia. Dopo vari lavori e collaborazioni ho superato alcuni concorsi pubblici e sono entrata al Ministero della Salute dove sono rimasta in servizio per molti anni. 

Come è maturata l’idea di lasciare l’Italia?

L’Italia e soprattutto Roma le ho nel cuore anche se non rimpiango affatto le alzatacce alle 5.30 di mattina tutti i giorni per andare a lavorare.  Mi alzavo ed uscivo molto presto per evitare il traffico.  Continuavo a chiedermi come fosse possibile condurre per 40 anni quella vita, così come avevano fatto mio padre ed altri milioni di persone.  Un mio caro collega mi parlava spesso di suo fratello che era vissuto per vari mesi in Australia.  Io rimanevo affascinata dai suoi racconti. Continuavo a sognare e a visualizzare terre lontane, civiltà e culture diverse, un’altra vita, pur reputandomi molto fortunata per il lavoro che avevo nella pubblica amministrazione e che mi ha insegnato molto sotto tutti i punti di vista.  L’opportunità di venire negli Usa si è presentata anni dopo grazie al lavoro di mio marito.  Quindi prima abbiamo accettato la sua assegnazione qui in Texas e poi abbiamo deciso che forse valesse la pena restare.

Cosa le manca dell’Italia?

Mi mancano sicuramente non solo familiari ed amici, ma anche la vita sociale più intensa, l’abbondanza di arte di cui noi italiani possiamo e dobbiamo assolutamente essere fieri e che ci invidia il mondo intero. Se solo ci rendessimo conto – con il cuore prima ancora che con la ragione – ed operassimo e ci attivassimo in armonia con questa consapevolezza e con un maggiore spirito di solidarietà e di senso civico, trasformeremmo il nostro martoriato Paese in un paradiso. Ovunque sono andata sia in Europa sia negli Usa sono stata favorevolmente accolta proprio  per il fatto di essere italiana.  

Il suo curriculum è importante: naturopata, life strategist, coaching olistico e spirituale, tanto per citare alcune attività. Cosa fa esattamente, come ha scelto questi lavori, in che modo li svolge, quale passione c’è dietro?

Una volta trasferitami negli Usa, non potendo lavorare per molti anni per ragioni burocratiche, ho ripreso gli studi accademici proseguendo prima quelli giornalistici con l’American College of Journalism e successivamente conseguendo le lauree Bachelor, Master e Dottorato in Salute Olistica. Mi sono specializzata in Naturopatia – quindi in Alimentazione ed Erbalismo sia occidentali sia orientali, inclusi principi di Ayurveda e Medicina Tradizionale Cinese ed altre metodologie olistiche – e in Omeopatia Classica.  Oltre a ciò, ho frequentato molti corsi in settori sempre legati alla salute. Quest’ultima è sempre stata un elemento molto importante sin da quando sono nata. I miei genitori erano molto attenti all’alimentazione sana ed equilibrata, all’esercizio fisico, al riposo, ai rimedi naturali.  Si è trattato, di fatto, di un training che ho ricevuto sin dall’infanzia. Durante l’adolescenza, per ragioni di salute mi sono avvicinata all’Omeopatia.  Quest’ultima mi ha aperto gli occhi sulla veduta “olistica” della vita, prima ancora che della salute.  Ho capito quanto fosse importante: a) valutare l’individuo nella sua complessità ed unicità, in cui mente, corpo e spirito sono indissolubilmente interconnessi l’uno all’altro, b) identificare sintomi e malattia come il linguaggio usato dal nostro corpo per comunicare con noi un suo squilibrio, piuttosto che considerarli nemici da combattere.  Successivamente, un corso manageriale medico-amministrativo frequentato molti anni fa e che mi aveva appassionata molto ha ulteriormente spianato la strada. Ad un certo punto, facendo delle ricerche su studi accademici, mi sono imbattuta in Global College of Natural Medicine e mi sono letteralmente innamorata dei loro programmi. Mi sono detta: “Go for it!” (Fallo!). È stato un percorso molto intenso, ma altrettanto stimolante e che ho amato da subito.  La mia attività di coaching era iniziata circa 35 anni fa come Coaching Personale e Spirituale. Negli anni, tramite collaborazioni con HR, Aziende specializzate nel reperimento, nelle interviste, e nella selezione del personale la mia sfera di competenze si è ampliata permettendomi di aggiungere anche Istruzione e Carriera.  Con i successivi studi accademici e le conseguenti specializzazioni, il mio Coaching è diventato a 360̊, includendo quindi anche Salute e Benessere.  Il tutto nasce da una mia grande passione che abbraccia di fatto varie discipline. Le mie attività le svolgo da casa tramite email e videoconferenze.  Essendo una persona eclettica ho molti interessi.  Non solo, ma sono attratta da ciò che è nascosto, velato, direi quasi “esoterico”.  Non sono interessata a dire ad una persona quanti grammi di pasta, di pane o quanti grammi di proteine o di verdure deve mangiare ad ogni pasto.  La educo spiegandole cosa e come mangiare e cosa evitare, ma poi le lascio la scelta di assumersi la responsabilità di tornare alle vecchie abitudini o di rimboccarsi le maniche ed iniziare una nuova vita partecipando attivamente alla sua salute. Sono molto più affascinata dal capire il perchè la persona è in sovrappeso, cosa la spinge a mangiare freneticamente e a cercare anche “junk food”, e quali sono le vere ragioni dei sintomi e della malattia che non dal limitarmi a consigliare rimedi erboristici, omeopatici e/o integratori alimentari, anche se, naturalmente, sono anch’essi parte della mia attività di consulenza.  Di fatto sono una Educatrice, una grande Motivatrice, una Ricercatrice Spirituale.  Cerco di aumentare la consapevolezza negli altri affinchè migliorino non solo la propria vita, ma contribuiscano anche alla creazione di un mondo migliore.

Oceano di Sensi è il suo primo romanzo. Come è nato?

Ho iniziato a scriverlo molti anni fa. Ogni tanto lo mettevo via e, per una ragione o per l’altra, davo la priorità ad altro.  Mi piacevano trama e personaggi, ma mi sembrava che mancasse sempre qualcosa e non sapevo cosa.  Ad un certo punto ho capito cosa mancava, l’ho aggiunto.  Il tutto si è arricchito di particolari preziosi, ha preso forma e consistenza e alla fine l’ho pubblicato.  Molti sono i fattori che mi hanno spinta a scrivere questo romanzo: l’esperienza di persone che, benché di origini italiane e spesso siciliane, sono vissute in Libia per molti anni o ci sono persino nate; l’aver conosciuto donne che sono state abbandonate dai loro mariti ed hanno dovuto crescersi i figli da sole; la storia della colonizzazione italiana in Libia di cui io stessa sapevo poco e di cui raramente si parla; il desiderio da parte mia di capire meglio quel periodo della nostra storia, pur cercando di mantenermi equidistante tra italiani che erano andati in Libia prevalentemente alla ricerca di un lavoro e per garantirsi così un’esistenza se non ricca quantomeno decorosa e popolazione libica locale. Inizialmente il romanzo non l’avevo concepito come ‘erotico’.  Successivamente, però, dovendo affrontare il rapporto di coppia, proprio per la mia veduta olistica del Tutto, non ho potuto fare a meno di approfondire anche il tema erotismo e sessualità.  Il romanzo ha finito, dunque, con il diventare profondamente erotico.  Sessualità ed Erotismo in esso non sono, tuttavia, il fine, ma solo componenti importanti.  Oceano di Sensi può essere visto come un romanzo erotico, ma anche storico, d’amore ed altamente introspettivo.  Diciamo che, proprio per la sua varietà di elementi, può interessare ed affascinare un pubblico molto ampio ed essere interpretato in vari modi.

Cosa vuol dire la scrittura per lei?

Scrivere è per me ossigeno.  Quando scrivo sono un fiume in piena.  Scrivere per me è un modo per esprimere la profondità del mio essere, per viaggiare con la fantasia ovunque, per vivere altre vite, altre dimensioni, altre realtà, per penetrare il mistero della vita stessa, dell’universo. Tutto questo lo applico anche alla lettura, altra mia grande passione.

Lei è un’italiana che all’estero ha trovato il successo. Quali opportunità le hanno offerto gli Usa che forse non avrebbe avuto in Italia?

Benché l’America sia molto cambiata da quando sono arrivata nel 1995 e purtroppo non necessariamente in meglio, gli Usa rappresentano ancora un Paese che offre molte possibilità se tu ti metti in gioco e ti dai da fare. Il mio sogno – sin da ragazzina – era quello di diventare una scrittrice, una giornalista, ma in Italia è sempre stato tutto altamente politicizzato, troppo legato a discorsi di tesseramenti, favoritismi e clientelismi.  Forse oggi le cose, almeno in certi ambiti, sono un po’ diverse proprio grazie ad Internet ed ai nuovi media: sono molto felice di vedere, anche e soprattutto in Italia, il pollulare di tantissime iniziative culturali. La gente si sta dando molto da fare e, laddove non trova spazio attraverso quelli che potremmo considerare “canali tradizionali”, si rimbocca le maniche e si apre un varco attraverso la creazione di blog e/o associazioni culturali.  Fino a quando io sono vissuta in Italia – in un’era in cui non c’erano né internet né social media – ho visto molto raramente prevalere la meritocrazia.  Ho trovato porte pravelentemente chiuse.  Qui negli Usa, al contrario, e proprio per una cultura ed una mentalità profondamente diverse, ho potuto realizzare alcuni miei grandi sogni:  riprendere e portare a termine studi accademici, cosa che in Italia non mi sarebbe stato possibile fare ed intraprendere l’attività di scrittura fino a farla diventare una carriera a tempo pieno.  L’informazione, o meglio, la possibilità di reperire informazioni/notizie, è un altro aspetto che ho trovato molto positivo in America, al contrario di quanto avvenga da sempre in Italia dove molte informazioni che dovrebbero essere alla portata di tutti vengono gestiti come segreti di Stato.

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Le dure battaglie di Penelope

Dire battagliero è poco. Si infervora come sa fare solo chi si appassiona dei sogni che insegue, chi crede nella sua mission e conduce battaglie faticose. Antonio La Scala, pugliese, 51 anni, professione avvocato dopo un passato di ufficiale della Guardia di Finanza, dal 2014 è il presidente nazionale dell’associazione Penelope che assiste (gratuitamente) i familiari delle persone scomparse, con comitati presenti in quasi tutte le regioni italiane. Un’esperienza umana forte, ancor prima di quella professionale, trasformata in azioni concrete con l’obiettivo principale di far sentire meno soli i congiunti di chi, da un momento all’altro e spesso senza un motivo apparente, fa perdere le proprie tracce.  Senza contare che i frutti di questa mobilitazione stanno rendendo l’Italia un Paese più avanzato anche dal punto di vista normativo. Le storie di Penelope sono storie di dolore, disperazione, angoscia e morte. Sono le storie di migliaia di invisibili inghiottiti dal buio, non sempre cercati come si dovrebbe.   

Avvocato La Scala, come nasce l’associazione Penelope?

E’ nata su iniziativa di Gildo Claps, fratello di quella povera ragazza, Elisa, che dopo 17 anni dalla sua scomparsa è stata ritrovata mummificata nel soppalco della chiesa madre di Potenza. Lui è stato l’ideatore, nonché primo presidente nazionale. Ritrovandosi nel mondo degli scomparsi, all’epoca un fenomeno sconosciuto, ha contattato gli Orlandi, Gilda Milani Bianchi di Bassano del Grappa che ha perso l’unica figlia femmina, assassinata, Marisa Colinucci di Cesena, mamma di Cristina scomparsa 26 anni fa dopo essere andata a pregare in un convento e mai ritrovata, e altri familiari. Sono nati così i primi comitati, le prime apparizioni a “Chi l’ha visto?”, ma sono stati commessi anche errori perché si facevano incontri soltanto con le famiglie degli scomparsi. Non voglio prendermi i meriti, ma fino a 5 anni fa Penelope non aveva la risonanza mediatica che ha oggi. Quando sono stato eletto ho detto, per prima cosa, che piangere soltanto non serviva a far tornare a casa i figli, ma che bisognava fare conoscere il problema con incontri all’esterno, convegni, coinvolgimento dei media ecc. Cosa che è stata fatta. Nel 2007 siamo stati ricevuti dal presidente della Repubblica, Napolitano, grazie al quale abbiamo l’istituzione del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, una nostra richiesta esplicita.

Un Commissario che stila relazioni semestrali sul fenomeno. Cosa si evince da questi atti?

L’ultima relazione c’è stata il 31 dicembre 2018 e siamo arrivati a 58.000 persone scomparse dal 1974 ad oggi. La rabbia è che tutti hanno dormito, perché in quei dati impressionanti, ma nessuno lo scrive e non capisco perché, ci sono 2410 bambini italiani evaporati nell’aria. A questi bisogna aggiungere 3800 bambini stranieri, ma in questo caso va detto che molti di essi, dopo un periodo di permanenza nei centri di accoglienza, scappano per raggiungere i familiari e quindi sono fortunatamente vivi. Ovviamente non tutti, quindi tra italiani e stranieri i bambini scomparsi sono un’infinità, ma non sembra interessare. Nessuna trasmissione Rai o Mediaset ne ha fatto mai cenno.

Perché questa omertà, per usare un termine forte, secondo lei?

Perché dietro ci sono soprattutto i traffici di organi, che possono essere acquistati da chi se li può permettere, visto che un organo sano di un bambino costa moltissimo. Come non pensare, allora, che dietro ci sono ricchi e potenti che garantiscono l’organizzazione di questi traffici?

Oltre a questa agghiacciante ipotesi, quali sono le altre cause della scomparsa dei bambini?

Adozioni illegali e prostituzione minorile. E dei minori scomparsi non se ne parla, eccezion fatta per pochi casi come Denise Pipitone e Angela Celentano che tirano più mediaticamente. Perché si ha tanta paura di parlare degli altri bambini? Perché c’è un business enorme che gira intorno a questo fenomeno.  

Non possiamo non parlare del femminicidio. Dati allarmanti, da emergenza sociale.

Stiamo parlando di 3306 donne italiane scomparse, la seconda vergogna dopo quella dei bambini. Non dico che tutte sono vittime di femminicidio, ma va detto che la storia di Penelope, che coincide con la storia giudiziaria italiana, ci dice che fino al caso di Roberta Ragusa non c’era una condanna per omicidio con occultamento di cadavere, a parte le lupare bianche che seguono un’altra logica. Ci siamo costituiti parte civile per Roberta Ragusa, come per Guerrina Piscaglia, altro caso di omicidio con occultamento di cadavere, ed Elena Ceste.

Il numero di donne scomparse è impressionante, eppure si parla sempre delle stesse, poche a fronte dei dati reali. Perché?

Si segue una logica di attrazione mediatica. Basta un piccolo riferimento alla sfera sessuale e il caso schizza alle stelle. Abbiamo una media di 120-125 donne uccise l’anno, ma se chiedi ad una persona quali di queste donne si ricorda, risponderà: il caso di Meredith, il caso Stasi per la morte di Chiara Poggi, il caso Parolisi, Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Roberta Ragusa. Perché? Meredith per l’orgia dopo la droga e la macchiolina sul reggiseno; Sarah Scazzi perché la cugina Sabrina era innamorata di un ragazzo di cui la piccola Sarah si era invaghita e, poi, per la figura di zio Michele che ci provava con la nipotina; nel caso di Garlasco ha giocato il materiale pornografico trovato nel computer di Alberto Stasi;  per la piccola Yara c’è la mutandina con la macchia di sangue; per Roberta Ragusa, la storia dell’amante del marito che va a prendere il suo posto in casa; Parolisi era il play boy della caserma e aveva storie con le soldatesse. Ecco, la componente sessuale rende i casi appetitosi dal punto di vista mediatico. Delle altre donne non ne parla nessuno.

Cosa fa Penelope, in concreto, per le famiglie degli scomparsi?

Penelope fa due tipi di attività: l’assistenza legale e psicologica gratuita ai familiari degli scomparsi e, fondamentale, ha un ruolo di stimolo e impulso normativo. Nel 2014 ho stipulato un protocollo di collaborazione con l’allora Commissario di Governo, il Prefetto Piscitelli, di fatto accreditando l’associazione. A seguito di questo mi sono ammazzato, insieme alle altre forze sane del Paese, per far approvare leggi importantissime: per tutelare i minori stranieri non accompagnati, prime vittime dei fenomeni aberranti di cui parlavamo prima; per le vittime del bullismo e del cyberbullismo che hanno visto tanti minori anche suicidi; per le vittime del femminicidio che tutela sotto tanti punti di vista i figli delle donne uccise. Un’altra battaglia, di cui sono orgoglioso, l’abbiamo fatta per la banca dati del Dna, visto che abbiamo circa 2000 cadaveri negli obitori non identificati, ma altrettanti ce ne sono nei cimiteri. La legge è stata resa esecutiva, grazie al polverone che ho sollevato insieme alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, dopo 7 anni dalla sua approvazione, una vergogna. Abbiamo inoltre ottenuto di poter segnalare le scomparse via telefono, se non è possibile andare subito a fare la denuncia, affinché possano partire immediatamente le ricerche. C’è poi la formazione delle forze dell’ordine, che ho già incontrato in Puglia e in Emilia Romagna.  

Qualcosa mi dice che l’avvocato La Scala non si fermerà qui. Quali saranno le prossime battaglie?

Ho presentato una proposta al Sottosegretario alla Giustizia per ridurre i tempi di morte presunta, passando da 10 a 5 anni. Questo permette alle vittime di superare prima i problemi burocratici (conti bancari, premi assicurativi ecc.) E poi, fondamentale, bisogna eliminare dal modulo di denuncia la frase “allontanamento volontario” e tenere solo l’espressione che usa la legge: allontanamento. Nessuno può dire, nell’immediato, che si scompare volontariamente. La persona va cercata e basta. Mi batterò senza tregua per questo, non sai quanti danni ha fatto quel maledetto termine “volontario”.

Lo scrittore che serve il caffè

Ha firmato cinque romanzi di successo pubblicati con la prestigiosa casa editrice Sperling & Kupfer, viene tradotto in 8 Paesi europei e in Sudamerica, è l’unico autore “rosa” italiano, è stato paragonato allo scrittore statunitense Nicholas Sparks famoso per le sue storie di amori eterni. Eppure ogni mattina Diego Galdino, 48 anni, lo trovi dietro il bancone del “Caffellotto”, il bar del quartiere romano Aurelio che è stato per molti anni di proprietà della sua famiglia, a servire caffè e cappuccini ai clienti.

Non è certo una coincidenza che il suo libro di esordio, definito subito un caso letterario, si chiamasse “Il primo caffè del mattino”, pubblicato nel 2013, che racconta la storia d’amore di Massimo e Geneviève. Una storia nata, neanche a dirlo, dentro un bar. Da allora non si è fermato più. Nel 2014 scrive “Mi arrivi come da un sogno”, seguito da “Vorrei che l’amore avesse i tuoi occhi” del 2015, “Ti vedo per la prima volta” del 2017 e “L’ultimo caffè della sera” uscito a metà 2018, sequel del primo successo. Ed è già pronto il nuovo lavoro, atteso (molto atteso) a maggio prossimo, che si intitolerà Bosco Bianco. Incontro Diego Galdino nel primo pomeriggio, appena libero dal suo turno al bar, iniziato alle 5 del mattino come sempre.

Come è nata la tua passione per la scrittura? E da dove nasce “Il primo caffè del mattino”?

Ho iniziato a scrivere romanzi d’amore grazie ad una ragazza con cui avevo un forte legame. Un giorno mi regalò un libro di Rosamunde Pilcher, che ambientava le sue storie romantiche in Cornovaglia e mi disse: “Questo è un genere letto soprattutto dalle donne, ma sono sicura che la con la tua sensibilità lo apprezzerai”. Il suo sogno era quello di conoscere da vicino i posti dei romanzi della Pilcher, ma non poteva viaggiare a causa di seri problemi di salute. E allora feci una follia: feci quel viaggio per lei, per immortalare con la macchina fotografica quei posti meravigliosi. Un viaggio surreale, fatto di spostamenti assurdi.  Fotografai tutto quello che si poteva fotografare, tornai a Roma, feci fare un album e lo regalai alla ragazza che, poi, non ho visto più perché si è trasferita altrove. Quel libro e quel viaggio cambiarono la mia vita. Iniziai a scrivere perché volevo raccontare una storia d’amore con il lieto fine a differenza della nostra.

La definizione di autore “rosa” ti piace o ti sta stretta?

Mi fa sorridere perché trovo riduttivo legare l’amore a un solo colore, come quando gli editori dicono che i romanzi di genere romantico vanno pubblicati solo a primavera e d’estate.  Ecco, non credo che i sentimenti possano essere limitati a un colore o solo a certe stagioni. Però la definizione “rosa” mi fa anche piacere perché sono l’unico uomo che in Italia scrive romanzi di questo genere. Pensa che parteciperò a breve al Festival italiano del Romance a Milano, sarò l’unico autore uomo in mezzo a 160 autrici. Tra di loro mi sento un po’ come la particella di sodio dell’acqua, una sorta di intruso. Ma questo genere letterario è nelle mie corde, la mia scrittrice preferita è Jane Austen, ho detto tutto.

La tua vita da barista continua nonostante una bella carriera di scrittore. Perché questa scelta?

In questo bar, che prima si chiamava con il nome di mio padre Lino, io ci sono nato. Nel vero senso della parola perché a mia madre le acque si sono rotte proprio dietro il bancone.  Stare a contatto con la gente mi fa stare bene e da quando scrivo è ancora più bello perché sono contento che i miei amici lettori – io li chiamo così, non mi piace il termine fan – possono venire a trovarmi, farsi una foto e conoscere il bar frequentato dai personaggi del libro “Il primo caffè del mattino” che mi ha fatto conoscere al grande pubblico, e del suo seguito. Tutti personaggi reali, esistenti. E i lettori vengono spesso a trovarmi, anche gli stranieri provenienti dai Paesi dove i romanzi sono arrivati. Tutto questo è fantastico, perché voglio essere uno scrittore che mantiene i contatti diretti”.

Nel tuo primo romanzo hai dedicato anche un’appendice al caffè, descrivendo tutti i tipi richiesti dai clienti, associandoli alla personalità di chi li beve.

Si, ad ogni tipo di caffè associo il carattere della persona, una specie di oroscopo. Ad esempio, chi ordina il caffè macchiato è un indeciso, non sa se vuole un caffè o un cappuccino. Sicuramente sarà una persona indecisa anche nella vita.

Sei molto seguito all’estero, dove spesso vai per promuovere i tuoi libri.

A giugno sarò in Bulgaria dove il mio editore bulgaro ha organizzato un tour. Vado volentieri, il mio ultimo libro è in classifica ed è considerato il romanzo d’amore più bello. Sono stato spesso all’estero per i miei libri, li ho presentati alla Fiera di Francoforte e di Madrid, alla televisione polacca e in Germania ho rappresentato l’Italia al Festival di Letteratura Europea>.

Perché hai sentito la necessità di dare un seguito al tuo primo successo?

In realtà i seguiti non mi piacciono molto e “L’ultimo caffè della sera” può essere considerata anche una storia a sé, possono tranquillamente leggerlo anche chi non conosce il primo.  Avevo però da raccontare cose nuove della vita del bar, molto autobiografiche, e sono contento di averlo fatto. 

Il lavoro di barista è sicuramente impegnativo. Quando trovi il tempo per scrivere romanzi?

Mi alzo alle 4 e scrivo prima di andare ad aprire il bar. Durante la giornata appunto eventuali idee e pensieri, ma alla scrittura vera e propria mi dedico all’alba.

Ed ora l’attesa è tutta per il nuovo lavoro di Diego Galdino, un concentrato di simpatia, sentimenti e umiltà. Un’altra storia d’amore, attesa in tutto il mondo, che sicuramente replicherà il successo delle altre. Vogliamo scommetterci un caffè?

Aggiungi un posto al sole

E’ il portiere di condominio che tutti vorremmo. Perché il condominio è il prestigioso Palazzo Palladini di Posillipo e lui è Raffaele Giordano, personaggio di punta della soap italiana “Un posto al sole”, un grande successo di Rai 3 in onda nella fascia preserale del palinsesto. Per Raffaele la guardiola è quasi una plancia di comando, da dove gestire le vicissitudini delle famiglie protagoniste della fiction. Nei suoi panni, fin dalla prima puntata del 1996, c’è Patrizio Rispo, napoletano doc di 63 anni, proveniente dal teatro dove ha recitato con artisti del calibro di Vittorio Caprioli e Valeria Moriconi, ricevendo importanti premi come migliore attore. Ha lavorato anche con Massimo Troisi e altri importanti colleghi, ha scritto commedie teatrali e collabora con l’Unicef.

Da 23 anni interpreta il personaggio di Raffaele Giordano. Cosa significa, per un attore, recitare un ruolo per così tanto tempo?

E’ un lusso raro interpretare per tanto tempo lo stesso personaggio, è un’esperienza psicologica importante. Anzi, più che interpretare vuol dire avere una vita parallela. In questi anni, nei panni di Raffaele Giordano, ho toccato corde che nella vita reale pochi uomini hanno toccato. Sono stato marito, genitore, amante, artista e tanto ancora. Direi che è l’equivalente di girare 1800 film e lavorare 360 giorni l’anno è un’esperienza unica. 

Qual è il segreto del successo di “Un posto al sole”?

Ormai ci siamo sostituiti a un giornale perché approfondiamo tutti i problemi della quotidianità e raccontiamo la cronaca, ma con un approccio positivo e solare. E di argomenti ne abbiamo affrontati tanti, anche quelli duri come la camorra e la violenza sulle donne. Quest’ultimo è protagonista proprio nelle puntate di questi giorni (il riferimento è alla violenza subita in famiglia da Adele Picardi, interpretata da Sara Ricci, ndr). E proprio nei giorni scorsi, sono rimasto sconvolto dalla morte di una nostra telespettatrice, Alessandra, che prendendo spunto dalla nostra puntata, scriveva in un post quanto fosse assurda la violenza sulle donne. Quella stessa violenza che, in maniera orribile, l’ha portata via. Andando su Google per documentarmi, di Alessandra uccise così ne ho trovato tantissime. Un dramma enorme.

 Che tipo di rapporto si crea tra attori che da tantissimi anni lavorano sullo stesso set ogni giorno?

Ormai siamo una famiglia, anche serena e felice perché non ci sono competizioni. Ognuno di noi ha un suo ruolo importante e definito e questo vale anche per tutta la macchina organizzativa che gira intorno alla soap.

Raffaele Giordano ha due grandi passioni: il Napoli e la cucina, ovviamente partenopea. Sono anche le passioni di Patrizio Rispo?

Assolutamente sì, anche perché gli autori si muovono tenendo conto delle reali passioni di noi attori.

E in cosa altro assomiglia a Raffaele Giordano?

Sicuramente per la curiosità, l’onestà, l’amore per la famiglia.

Come vive la popolarità e l’affetto di chi segue la fiction?

La gente mi considera più che un attore un parente. Mi ferma per strada e in me cercano Raffaele, è molto piacevole senza dubbio.

Lei proviene dal teatro. Cosa rappresenta per un attore questa esperienza?

Il teatro è uno strumento indispensabile, è come la bottega dell’accordatore per uno strumentista. Nel cinema e in televisione si può fermare la ripresa e rifare la scena, a teatro avere davanti il pubblico richiede lucidità e concentrazione. Ora lo faccio di meno, ma sono nel Consiglio di amministrazione del Teatro Nazionale Mercadante di Napoli, quindi dall’altra parte, e questo mi permette di aiutare i colleghi, che non stanno passando un bel periodo. Sono molto più utile da questa parte, anche perché non è frequente avere un attore nel Cda.

Pensa di continuare a interpretare il personaggio di Raffaele o nei progetti futuri c’è altro?

Il personaggio vorrei mantenerlo senz’altro, ma mi piacerebbe anche il cinema. Apprezzo molti registi italiani come Riccardo Milani, Paolo Sorrentino, Edoardo De Angelis, Mario Matone. E mi piacerebbe un personaggio di grande respiro, ovviamente diverso da quello di una soap. Un personaggio in una storia che si sviluppa in una fabbrica, in una piazza, insomma in un contesto diverso.  

Lei si impegna anche molto per la sua città. Ma come è Napoli, oggi?

Sono sempre pronto se si tratta di promuovere Napoli e quanto di buono ha. Ho appena partecipato alla prima puntata di una trasmissione di Tv2000 dedicata proprio alle positività di Napoli. La mia città è una fucina di talenti in fermento che lottano per le tante difficoltà che, per esempio, ha il Comune, con pochi soldi per tutelare il patrimonio artistico della città. Ma io sarò sempre in prima linea a difendere Napoli.

Voglio giustizia per Daniele

Da quando Daniele non è in casa, papà Francesco dorme su un divano vicino al portone di ingresso. La camera da letto è più lontana, non vuole rischiare di non sentire il figlio se torna e bussa, desidera essere pronto ad aprire e ad accoglierlo.  E’ uno dei toccanti episodi che mi racconta Francesco Potenzoni, 66 anni, padre di Daniele, scomparso a Roma il 10 giugno 2015. Inghiottito dal caos della metropolitana nella stazione di Termini, sfuggito alla vigilanza dell’operatore del Centro a cui Daniele, autistico, era stato affidato in occasione di una gita di tre giorni a Roma. In gruppo si recavano all’udienza di Papa Francesco, dove Daniele non è mai arrivato. Scomparso nel nulla. L’operatore che doveva sorvegliarlo, un infermiere dell’ospedale di Melegnano, è stato processato per abbandono di persona incapace e assolto perché il fatto non sussiste. Non è stato riconosciuto il dolo.  La famiglia Potenzoni, originaria della Calabria, vive a Pantigliate in provincia di Milano. Daniele ha due fratelli minori: Marco è sposato, Luca vive con i genitori e cura le iniziative per ritrovare Daniele, come la pagina Facebook dedicata al caso. La madre Rita, dopo la scomparsa del figlio, si è ammalata gravemente. Per loro, la vita si è fermata il 10 giugno 2015. Da quel giorno, pensano soltanto a riportare Daniele a casa.

La mia chiacchierata con Francesco Potenzoni inizia proprio dall’esito della vicenda giudiziaria che ha lasciato l’amaro in bocca ai familiari di Daniele, 36 anni all’epoca della scomparsa. <Non c’è stato dolo, dicono i giudici. Quindi si è trattato di negligenza, ma per me è la stessa cosa perché mio figlio non c’è. Questa sentenza ci ha fatto sentire abbandonati dallo Stato perché Daniele è andato a Roma affidato a qualcuno, non da solo. Mi sono vergognato di essere italiano. In tre anni e mezzo ho partecipato a venti udienze, si entra in tribunale e c’è scritto che la legge è uguale per tutti. Ma non è vero, non è così. E mi ha fatto male vedere che, appena letta la sentenza, l’infermiere che doveva sorvegliare mio figlio festeggiava, rideva con i colleghi. Ma cosa c’è da festeggiare se non sappiamo che fine ha fatto Daniele? Ora speriamo nell’Appello, la Procura sembrerebbe intenzionata a procedere in questa direzione>.

Signor Potenzoni, come e quando ha saputo che si erano perse le tracce di suo figlio?

Daniele è scomparso alle 9 di mattina, io l’ho saputo soltanto alle 17.30 quando l’infermiere mi ha chiamato e fino ad allora non aveva neanche fatto la denuncia. E’ andata a farla dopo questa telefonata, l’ho sollecitato io, ma andava fatta subito vista la patologia di cui soffre mio figlio. Mi ha detto che lo avevano cercato senza risultati. Era l’ultimo giorno della gita. So che alle 8 il gruppo, che era formato da 11 ragazzi e 6 accompagnatori, è stato diviso in due. Il primo è partito subito per il Vaticano, nel secondo – di cui faceva parte Daniele – c’erano 5 ragazzi e 3 infermieri, quindi le persone da assistere erano davvero poche, eppure mio figlio è stato “perso”.

Nessun avvistamento è stato utile, ma come è stato cercato Daniele? Si poteva fare di più?

Le ricerche più approfondite sono state fatte grazie al commissario del Comune di Roma, il Prefetto Tronca, che ha fatto scandagliare tutti i sotterranei. Durante i primi giorni, forze dell’ordine e inquirenti si facevano sentire. Ero in contatto costante soprattutto con il dottor Fattori della Polfer, che è stato molto disponibile, ma poi lui è stato trasferito e non ho saputo più nulla.

Vuol dire che Daniele non viene più cercato?

Di ufficiale non so niente, le ricerche continuano privatamente, le faccio io con l’aiuto degli amici che mi stanno vicini e con l’associazione Penelope. Con loro verifichiamo anche gli avvistamenti che vengono segnalati, ma non ce ne sono da tempo. Debbo ringraziare soprattutto voi giornalisti se si parla ancora di Daniele, non avete mai spesso di seguire il caso e, infatti, ne stiamo parlando anche adesso. 

Cosa altro l’ha amareggiata, in questa vicenda?

Dicevo prima dello Stato che ci ha abbandonato. E’ quello stesso Stato che, soltanto un mese dopo la scomparsa, ha revocato la pensione di invalidità a Daniele perché non si è presentato alla visita di controllo.   

Mi dica dell’ultimo giorno in cui ha visto Daniele, quando è partito per Roma. Che ricordi ha di quei momenti?

Non ero contento che Daniele andasse a Roma. Frequentava il Centro da 14 anni ed aveva partecipato ad una gita soltanto una volta per andare al mare. Non lo mandavo fuori volentieri perché stavo più tranquillo se la sera, quando tornavo dal lavoro, lo avevo a casa. Ma lui era felice di andare dal Papa, si era preparato anche la valigia da solo. La mattina della partenza sono andato a chiamarlo, dormiva ancora e sono stato tentato di non svegliarlo per non farlo partire. Ma poi ho deciso diversamente, non volevo deluderlo. L’ho accompagnato alla stazione, ho parlato con l’infermiere, gli ho dato 100 euro nel caso Daniele volesse fare qualche acquisto a Roma. Non l’ho più visto. Spesso mi dico che se quel mattino non lo svegliavo, ora starebbe qui con me.

Appena saputo di quanto accaduto, lei si è precipitato a Roma per cercare Daniele.

Immediatamente. Il sindaco del mio paese ha messo a disposizione venti volontari per le ricerche, dopo qualche giorno ovviamente loro sono tornati a casa e io ho proseguito. Sono stato a Roma tre mesi e devo dire che ho conosciuto gente meravigliosa, come un carabiniere che appena smetteva il servizio mi accompagnava nei posti più nascosti di Roma per trovare Daniele.

Una notizia positiva comunque c’è. Sono stati fatti riscontri con i cadaveri non identificati e nessuno corrisponde a Daniele.

Per fortuna è così, questo mi aiuta ad andare avanti, a cercare ancora.

Ma dove può essere Daniele? Che idea si è fatto durante questi lunghi anni?

Conoscendo mio figlio, escludo che viva in strada. Secondo me, potrebbe essere in un convento o in una parrocchia perché Daniele amava molto gli ambienti della Chiesa. Oppure in campagna, in posti dove la notizia della scomparsa magari non è neanche arrivata.

Se fosse così, perché Daniele non farebbe capire in qualche modo di volere tornare a casa?

Il problema di Daniele è proprio questo, lui non chiede aiuto. Se sta in un posto dove si trova comunque bene, anche se ha nostalgia di noi non riesce a dire di voler tornare a casa. Oppure, a causa della sua patologia, potrebbe essere convinto di stare ancora in gita.

Mi parli di suo figlio, di come è, come si comporta, quali sono le caratteristiche del suo carattere.

Daniele si è ammalato a 18 anni, improvvisamente. Ha frequentato la scuola fino al terzo Liceo classico, era un ragazzo molto intelligente, scriveva per il giornalino del paese, frequentava la Chiesa, era impegnato in tante attività. Lasciata la scuola, ha deciso di venire a lavorare con me. Un giorno, finita la pausa pranzo, ci siamo lasciati per tornare al lavoro, divisi perché lui aveva preso la bicicletta e quindi andava per conto suo. Lo ho aspettato per ore, lo ho cercato, nessuno aveva notizie di lui. Dopo molto tempo l’ho trovato seduto su una panchina in piazza, aveva gli occhi che sembravano di vetro e la bava che usciva dalla bocca. E diceva cose senza senso. Dopo una serie di accertamenti, i medici hanno diagnosticato un inizio di schizofrenia non aggressiva e l’autismo. Era un ragazzo mite, non dava fastidio a nessuno, chiedeva giusto qualche sigaretta, amava stare con gli anziani, era generoso e servizievole.  Gli volevano bene tutti.

La vicenda di Daniele ricorda molto quella di Iuschra Gazi, la bambina di 11 anni, anche lei autistica, scomparsa nel Bresciano durante una gita. So che lei ha avuto contatti con i suoi familiari.

Si, ho parlato con lo zio. Un altro dramma, ancora peggiore del nostro perché Roma è una grande città e Daniele può essere ovunque, mentre la bambina è scomparsa in un bosco con tutte le insidie che un posto del genere può nascondere. Sto organizzando una fiaccolata per Daniele e inviterò anche i familiari di Iuschra. Capisco il loro dolore, so cosa significa vivere con un peso così grande. Anzi, neanche  si può dire che si vive, semplicemente si sopravvive. E si sopravvive continuando a cercare la giustizia, quella che voglio per mio figlio Daniele.

Giorgio, l’ultimo sognatore

Giorgio Manetti è stato, senza dubbio, il cavaliere più corteggiato della trasmissione “Uomini e Donne”, trono over, condotta da Maria De Filippi su Canale 5. Fiorentino, segno zodiacale Toro (è nato il 28 aprile 1956), si è distinto per la sua filosofia di vita da “gabbiano”, ma anche per l’innata eleganza che ha conquistato un’ infinità di cuori femminili. Uno stuolo di donne ha espresso il desiderio di frequentarlo, nella maggior parte dei casi senza successo. L’unica storia d’amore, durante il programma, l’ha vissuta con la signora indiscussa dello show Gemma Galgani. Nella nuova edizione di “Uomini e Donne” Giorgio Manetti non fa parte del cast, impegnato in altri progetti.

Il grande pubblico ti ha conosciuto nella trasmissione “Uomini e Donne”, ma chi è veramente Giorgio Manetti? Come ti definiresti?

Mi definisco un sognatore, una persona che sempre avuto un approccio positivo verso la vita e verso tutto ciò che ne fa parte: conoscenza del mondo, esperienze, emozioni e sentimenti. Sono una persona che crede nei valori fondamentali: sincerità, coerenza, rispetto, autostima.

Perché hai deciso di lasciare una trasmissione che ti ha dato tanta popolarità?

Durante l’ultima stagione ho avvertito un forte senso di disagio, non riuscivo più ad essere me stesso. Qualsiasi cosa facessi o dicessi all’interno dello studio di U&D era inevitabilmente ed inspiegabilmente contestata, nonostante spiegassi in maniera molto dettagliata tutto ciò che era accaduto, il mio stato d’animo, il rapporto con la controparte ecc. Probabilmente la mia filosofia di vita non è stata capita e accettata.

Inevitabile parlare di Gemma Galgani, l’unica donna del trono over che hai avuto al tuo fianco per un lungo periodo. Cosa ti ha lasciato questa storia?

La storia avuta con Gemma ha contribuito ad arricchire la mia vita, perché dobbiamo far tesoro di tutto ciò che la vita ci offre. E’ una donna con molte qualità, ha una forte personalità. Fu lei a decidere di troncare la storia, in modo per me totalmente inaspettato, ma c’è ancora incredibilmente gente che pensa che sia io a non essere stato carino con lei! Ho passato otto mesi con lei, non ho nessun rimpianto ed ho un ricordo positivo di quella storia.

Qual è il tipo di donna che conquisterebbe il tuo cuore?

In sintesi, deve assolutamente possedere queste fondamentali qualità: pulita dentro e fuori, sensibile, elegante anche se vestita di stracci e con una smisurata forza interiore.

Come vivi la popolarità? Quanto è importante per te?

La popolarità è bella fino a che non intacca i tuoi valori, la tua dignità e la tua privacy. Non venderei mai la mia anima pur di essere popolare: ringrazio Maria De Filippi per avermi permesso di partecipare ad un seguitissimo format televisivo e diventare molto popolare di conseguenza, ma è certo che ciò è dipeso anche dal fatto che sono sempre rimasto me stesso, cosa che il pubblico da casa ha perfettamente percepito.

Quali sono i tuoi impegni attuali? E quelli futuri?

Attualmente partecipo come opinionista ad un programma di attualità molto seguito, TADA’ in onda su RTV38, una rete regionale toscana, ogni lunedì dalle 17.30. Oltre alla mia partecipazione ad eventi vari in giro per l’Italia, con la mia iniziativa Giorgio Manetti Lifestyle organizzo eventi privati ed aziendali. Mi sto preparando per il viaggio in Russia il prossimo 13 marzo, dove parteciperò come speaker ad una fiera internazionale a Mosca. Spero comunque di poter tornare presto nella TV nazionale, magari con un ruolo di opinionista oppure recitare in una fiction. L’importante è essere sempre il protagonista della propria vita.

Il fioraio che regala libri

Dillo con i fiori, ma anche con i libri. Arriva da Napoli, quartiere Chiaia, la bellissima iniziativa ideata da Luigi Esposito, 53 anni, titolare del chiosco di fiori che si trova all’angolo di Largo Ferrandina, nella parte antica del capoluogo campano. Qui i clienti, ma anche i semplici passanti, possono prendere i libri che Luigi regala a chi ama la lettura come lui.

Come è nata questa iniziativa?

E’ nata per caso un paio di mesi fa. Stavo leggendo un giallo di Maurizio De Giovanni e un cliente mi ha chiesto di prestarglielo. Ho risposto che glielo avrei regalato non appena finito di leggerlo. E ho pensato che poteva essere un’idea quella di regalare libri. All’inizio ho dato i miei, ora i clienti mi portano i loro quando non sanno più dove metterli. Ho cominciato così, mettendo nel chiosco un cesto con i volumi da regalare e uno per i libri da scambiare.

Alla base di questo deve esserci, comunque, l’amore per la lettura.

Amo leggere da sempre, dai classici alle proposte più attuali. Non ho studiato molto perché a 13 anni ho iniziato a lavorare nel chiosco di fiori di famiglia, ma la lettura mi ha sempre attratto.

Quali sono i suoi libri preferiti?

Tantissimi, se devo scegliere sono sicuramente “Siddartha” di Herman Hesse e “Il profeta” di Gibran. Ma anche “Il dottor Zivago”, “I fratelli Karamazov”, “Il cacciatore di aquiloni”. Amo anche Italo Calvino e Socrate.

Come è stata accolta la sua iniziativa di regalare libri esposti tra i fiori?

I clienti sono felicissimi, il chiosco è diventato un club letterario, una bellissima cosa.

E qual è il lettore tipo che viene a prendere i libri da lei?

E’ importante dire che sono persone dai 40 anni in su, quasi tutti professionisti molto colti. I giovani non leggono, riescono ad appassionarsi se c’è qualche libro sui vampiri o su personaggi della televisione, per il resto zero. Mi dispiace questa cosa, anche perché mi trovo vicino ad una scuola e vorrei coinvolgere maggiormente i ragazzi, ma ho notato che è difficile. Preferiscono stare continuamente sui telefonini, peccato davvero perché leggere è meraviglioso, ci fa crescere.

Pensa di ampliare la sua iniziativa, visto il successo che sta riscuotendo?

No, tutto è iniziato in modo spontaneo e vorrei che restasse tutto così spartano, l’importante è contribuire a far crescere l’amore per la lettura.  

La mia band è differente

Starò sempre dalla parte dei giovani che tentano di trovare una strada per raggiungere i propri sogni. Anche per questo motivo  ho voluto incontrare Matteo Dell’Omo, di Anagni, in arte Antòn, – nome scelto in ricordo del padre scomparso Antonio – che sogna di far conoscere le sue canzoni. Le scrive da quando aveva 20 anni. Ora ne ha 27 e da poco ha lanciato il brano “Soli contro tutti” accompagnato da un video. Prima di questo singolo ha pubblicato “Quante cose” e “Maledetta luna”. Tutte canzoni molto gettonate sul web e trasmesse da varie radio private.

Come è nata la tua passione per la musica?

L’ho sempre avuta, fin da quando ero piccolo. Per un certo periodo mi sono dedicata ad altre cose pur continuando ad ascoltare e a pensare alla musica, ma a venti anni ho comprato una chitarra e ho iniziato a scrivere canzoni.

Hai avuto anche un’esperienza a Sanremo.

Nel 2017 ho partecipato, al Palafiori di Sanremo, ad un concorso parallelo al Festival con la canzone “Quante cose”, vincendo anche un premio.

Proprio in questi giorni si sta svolgendo il Festival. Cosa ne pensi? Lo segui?

Lo sto seguendo un po’, credo che si dia più importanza ai cantanti che alle canzoni, invece dovrebbero essere protagoniste queste ultime, visto che è il Festival della canzone italiana. So di canzoni eliminate che sono molto più belle di quelle ammesse proprio perchè prevale la fama dell’artista che assicura un certo share.

Quali sono i tuoi generi musicali e cantanti preferiti?

Il rock, canzoni italiane, la musica inglese, Vasco su tutti e Renato Zero.

Come potrebbe essere definito il tuo genere musicale?

Pop-rock con testi attuali e polemici.

A chi è rivolta la polemica?

I miei testi parlano soprattutto della società attuale e dei problemi del nostro Paese che sono sotto gli occhi di tutti e cerco in particolare di risvegliare la coscienza dei giovani per incitarli al cambiamento.

Cosa hanno i giovani, oggi, che non va?

Si lamentano un po’ troppo, invece dovrebbero rimboccarsi le maniche.

Quali sono le difficoltà che hai incontrato o stai incontrando per inserirti in un mondo sicuramente difficile?

Agli inizi tanta gente vuole approfittarsi della tua voglia di fare, del tuo lavoro, promettono senza mantenere, cercano di sfruttarti per interessi economici. Sono delle situazioni che ho vissuto sulla mia pelle, ecco perché mi sento di dire ai giovani che vogliono intraprendere questa strada di fare tutto da soli, se hai talento qualcuno se ne accorgerà.

Nel video di “Soli contro tutti” hai un gruppo musicale particolare, formato da bambini. Ha un significato questa scelta?

E’ il mio primo video e sì, c’è un motivo. Una volta sono stato scartato ad un concorso perché cantavo da solo, mi hanno detto di farmi una band. E io l’ho trovata! Sono bambini di sei anni che crescono, in un certo senso, soli contro tutto come il titolo della mia canzone.

Dopo questa canzone quali sono i tuoi progetti?

Ho scritto già altre canzoni, vorrei fare un album, ma il mio vero obiettivo è quello di andare avanti e non solo per la notorietà. Il mio sogno è quello di far conoscere i miei lavori , lanciare dei messaggi ad un pubblico sempre più vasto.

Già, i sogni. Guai a non averne e a non coltivarli. Buona fortuna Antòn!

Il talento dei BardoMagno

Lo giuro: è la mia prima intervista in lingua antica, tra le più divertenti. E non può essere altrimenti se incontri gli artisti della band BardoMagno, una delle rivelazioni di Italia’s Got Talent. La trasmissione di Tv8 li definisce <musicisti stravaganti venuti direttamente dal Medioevo>. Nella puntata dello scorso 25 gennaio hanno proposto, adattando il testo della canzone “Riccione” di Thegiornalisti, il brano “Lo schiaffo di Anagni” (VIDEO).

Il loro stile è proprio questo: riadattare canzoni famose con l’obiettivo di far conoscere al grande pubblico il sistema feudale e i fatti storici di quel periodo. Lo fanno dal 2014, quando è nato, si legge sul loro profilo Facebook,  <lo progetto musicale de “Feudalesimo e Libertà”, lo vero et unico Partito politico che – pe’ volontade divina – difende li interessi dello Popolo>. Tra le loro creazioni più recenti, “Il Centro di castità permanente” (da Battiato).

Il gruppo è formato da Valerio Storch, Alessandro Mereu, Edoardo Sala e Maurizio Cardullo, con all’attivo importanti precedenti esperienze musicali. Si presentano indossando abiti storici e indicando Aquisgrana, sede della corte di Carlo Magno e crocevia di lotte religiose, come città di provenienza.

Fin qui l’ufficialità. Ma sentite come si presentano loro:

Li menestrelli imperiali che costituiscon la feudal compagine di Bardo Magno sono: Abdul Il Bardo (Voce et Chitarra): Valerio Storch, noto anche come Mohammed Abdul, musico delli Nanowar Of Steel. Don Alemanno (Voce et Bolle Papali): Alessandro Mereu, o anche Papa Alemanno d’Acquisgrana, noto al mondo come lo disegnatore di Jenus. Il Gran Calippo d’Oriente (Flauti, liuti, cornamuse, et soprattutto Amore): Maurizio Cardullo, noto anche come lo polistrumentista dei Folkstone. Fra’ Casso da Montalcino (Tamburi, potenza, vino e tuono): Edoardo Sala, noto anche come lo batterista dei Folkstone.

Quando nasce la band e con quali obiettivi? 

Lo progetto nasce pe volontà di Carlo Magno nel lontano 801. Nominatici valvassori dello Sacro Romano Impero (con delega alla musica), Carlo (pe’ gli amici Carletto, fino ad un anno prima principe dei mostri), ci implorò di formare questa compagine pe’ favellar allo volgo li veri valori feudali. Noi ci siam semplicemente resi disponibili a servirlo. Hodie siam ancora quivi, spalleggiando Lo Imperatore, capo del partito Feudalesimo e Libertà, nonché unico et legittimo erede di Carlo.

Come si può definire il vostro genere musicale?

Noi siamo degli artisti TRAP-pisti.

Quali sono le vostre incisioni finora?

Finora abbiamo registrato solamente un live bootleg ufficiale uscito in edizione super-ridotta et esaurito in un mese, ma… Udite Udite! A breve uscirà il nostro primo disco in studio dal titolo originalissimo “Vol. 1”, contenente le nostre migliori opere o, meglio, quelle che ci sono state approvate dallo imperatore, espressione della volontà d’Iddio.

Con quale spirito partecipate a Italia’s Got Talent?

Collo spirito di chi gnosce la verità e pugna pe sostener li veri valori feudali, imperiali et asburgici, contra lo mondo moderno fornicatore et peccatore. Lo nostro spirito est quello di ispirare lo volgo allo volere imperiale et di guidarlo verso una vera modernità feudale.

 Prossimi progetti in cantiere?   

Discenderemo pe tutta Italia accompagnati dai Lanzichenecchi a favellar lo nostro verbo al volgo. Presenteremo in anteprima li brani allo volgo al Comicon di Napoli il 25 Aprile (la fiera del fumetto di Napoli, in volgare italiano), et successivamente festeggeremo l’uscita vera et propria del disco alla Quarta Adunata di Feudalesimo e Libertà, il 18 maggio al Live di Trezzo sull’Adda.  

Il giornalista lodato da Bush

Intraprendente, dinamico, esperto di comunicazione. Fabrizio Casinelli, 52 anni, è nato ad Arpino, provincia di Frosinone, ed è giornalista professionista dal 1998. Come molti di noi, ha iniziato la sua carriera collaborando con radio e televisioni locali nel periodo del boom dell’emittenza privata. Da allora, erano gli anni Ottanta, non si è più fermato. Fino ad approdare in Rai nel 2009, dopo vari e importanti incarichi ricoperti anche nella comunicazione istituzionale (Senato, Palazzo Chigi, presidenza del Consiglio dei Ministri). Attualmente è direttore del Radiocorriere Tv, da oltre 70 anni organo ufficiale della Rai.


Come definiresti l’esperienza della direzione dello storico Radiocorriere Tv?

Una esperienza straordinaria. Una testata storica che ha visto grandi firme del giornalismo italiano. Nel 2012 l’ho trovata abbandonata in un cassetto e ho deciso di rilanciarla in versione online. Da quel momento non ci siamo più fermati e sono sette anni che andiamo in rete ogni lunedì mattina grazie ad un manipolo di professionalità a cui sarò sempre grato.

Hai avuto tanti incarichi importanti, quale ricordi con particolare piacere?

Sicuramente essere stato Capo Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata una esperienza straordinaria. Sai, ricevere una lettera con i complimenti per il lavoro svolto da parte del Presidente degli USA, all’epoca George W. Bush, è stato qualcosa di unico. Se mi avessero detto nel 1984, quando ho iniziato a muovere i primi passi nel mondo della comunicazione, che un giorno sarei arrivato a Palazzo Chigi, sarei scoppiato a ridere. E poi i premi internazionali per lo sviluppo della comunicazione pubblica. Per non parlare del sito del Governo. Pensa che il mio progetto è rimasto operativo dal 2002 fino al restyling voluto dal governo Renzi. E’ stata una grande palestra professionale, ma soprattutto di vita.

Sei un giornalista di lungo corso, qual è a tuo parere lo stato di salute della nostra professione? 

La nostra professione vive un momento di grandissima difficoltà. Le nuove tecnologie hanno depotenziato il nostro lavoro. Con l’avvento dei social network, poi, siamo stati sorpassati a destra e sinistra da chi armato di un solo telefonino cellulare si sente a tutti gli effetti un reporter. Da qui le fake news e un sistema di notizie che fagocitano tutti senza rispetto. Noi abbiamo la nostra deontologia professionale come faro e non dovremmo mai dimenticarlo.

E quale è lo stato di salute della Rai dove lavori da tempo?

Sulla Rai se ne dicono tante, ma resta la più grande industria culturale del Paese. Una grande Azienda che ha al suo interno professionalità straordinarie, in tutti i settori.

Ad un giovane che vorrebbe intraprendere il mestiere di giornalista cosa consiglieresti?

La nostra professione è completamente cambiata. Quando ho iniziato c’era una forza, una spinta che oggi non vedo nei giovani colleghi. Nelle scorse settimane sono stato contattato dall’Università Roma 3 per parlare di comunicazione e giornalismo.  Ai tanti ragazzi presenti ho posto un paio di domande sulla loro idea di giornalismo e sul perché intraprendere questa professione. Le risposte che ho ricevuto mi hanno deluso, e non per colpa dei ragazzi che le hanno date, ma perché ormai viviamo in un mondo dove si pretende tutto e subito. Dove la sana e vecchia “gavetta”, quella fatta di ore al telefono per i classici giri di “nera o di bianca” sembra essere qualcosa di assurdo… 

 Sei nato ad Arpino, hai collaborato con testate della provincia di Frosinone, quindi conosci molto bene anche le vicissitudini della stampa locale, che non naviga proprio in buone acque. Cosa non ha funzionato e non funziona in questo ambito?

Mi piacerebbe fare il solito discorso di una provincia schiacciata tra Napoli e Roma, che potrebbe sembrare qualcosa di negativo, ma che invece dovremmo trasformare in una grande possibilità di sviluppo e di crescita: non l’ha fatto mai nessuno. Penso che la stampa locale  in questi anni sia mossa e sia cresciuta di pari passo con il territorio. La nostra Provincia ha avuto momenti di grande forza economica e politica. Adesso le cose sono cambiate e con la crisi del settore anche gli imprenditori che hanno creduto e investito vivono in un regime di grande difficoltà. Basti pensare al numero di realtà locali, radio, tv e giornali, che erano presenti sul nostro territorio negli anni 90 e a quelle che sviluppano la propria attività nel 2019. Siamo ben oltre la metà. Dati importanti, allarmanti. Sono stati pochi gli imprenditori puri del settore e quelli che resistono, perché di resistenza si parla, sono gli unici che hanno avuto la forza di guardare oltre il loro piccolo mondo antico. Mi auguro che la situazione possa migliorare, ma onestamente non ci credo.

Una voce per Lucio Battisti

E’ stato anche in Cina a cantare le canzoni di Lucio Battisti, cantautore intergenerazionale scomparso ormai da venti anni. Musica senza confini che Mauro Masè, artista abruzzese, dal 1998 porta nel mondo con uno spettacolo che include 24 canzoni del repertorio di Battisti.

Mauro Masè è “la voce di Battisti” e come lui canta, si muove e si veste, accompagnato dalla band formata da Fabio Rutolo alle chitarre, Dario Secondino al piano e tastiere, Francesca Petaccia al basso, Alessandro Di Muzio alla batteria, Stefania Nanni e Simona Marinucci ai cori. Ha all’attivo oltre 600 concerti in Italia e all’estero e in programma ce ne sono in Europa e in Australia.

Si è esibito con Bruno Lauzi, Adriano Pappalardo e La Formula 3 a Poggio Bustone, paese natale di Battisti, in occasione dell’anniversario della morte, ed è stato il protagonista della docu-fiction dedicata al cantautore italiano “L’uomo di Marzo” –  Il silenzio… il sogno” presentata in anteprima al 57esimo Festival di Sanremo. Ha inciso per la Blue Music  “Mauro Masè, una voce per Battisti”, volumi 1 e 2. Lo incontro mentre sta preparando il tour estivo 2019 che toccherà numerose piazze italiane.

Come è nata la tua passione per Battisti, tanto da aver impostato la tua carriera sulla sua musica, pur scrivendo anche brani tuoi?

L’ho presa dai miei genitori che lo ascoltavano continuamente con il mangiadischi. Da piccolo ero una peste, soltanto quando sentivo le canzoni di Lucio stavo buono, mi calmavo, come se entrassi in un’altra dimensione. Una passione che ho praticamente da sempre.

Anche la critica ha accostato la tua voce a quella di Battisti, riconoscendoti una forte sensibilità. Come ti definiresti? Un suo sosia?

No, non sono un sosia né un imitatore di Battisti, sono un suo interprete, fedele al suo stile.

Qual è la tua canzone preferita del vasto repertorio che Lucio ci ha regalato? Quella che ami maggiormente cantare?

E’ sicuramente “Mi ritorni in mente”. Non so se è la più bella, ma è quella che preferisco, sono cresciuto con le note di questa canzone. E mi ha fatto anche vincere la prima puntata di “Momenti di gloria” condotto da Mike Bongiorno su Canale 5.

Come vengono accolte dal pubblico le canzoni che interpreti?

Con grande entusiasmo, il pubblico è fantastico e canta con me tutte le canzoni. Si tratta di appassionati di tutte le età, di ogni generazione.

Anche all’estero c’è lo stesso coinvolgimento?

Assolutamente. Ho fatto concerti in Cina, Belgio, Canada e Svizzera. C’è un grande entusiasmo tra gli italiani che vivono all’estero ma anche tra i residenti. Ho un bel ricordo dei cinesi, che non conoscevano ovviamente le parole delle canzoni, ma seguivano con estremo interesse, erano contentissimi di sentire la musica italiana che proponevo. Lucio è decisamente anche un artista internazionale, unico nel suo genere. Ha rivoluzionato il pop italiano con una voce rimasta unica.

Una voce che Mauro Masè continua a far vivere nei suoi concerti, sempre affollati. Un eterno omaggio ad un artista che troppo presto ha lasciato le scene e la vita.      

Si può seguire l’attività di Mauro Masè sulla pagina Facebook ufficiale: https://www.facebook.com/MauroMaseofficial/

Dalla parte dei poveri

Mezzo secolo di solidarietà con al centro gli ultimi. E’ il traguardo eccezionale raggiunto dalla Comunità di Sant’ Egidio, nata a Roma nel 1968, all’indomani del Concilio Vaticano II, per iniziativa di Andrea Riccardi, giovane liceale ispirato dal Vangelo e dalla figura di Gesù. Da allora la comunità, un movimento internazionale di laici, è cresciuta fino ad essere presente in 70 Paesi del mondo dove presta aiuto concreto. Assistenza agli anziani, interventi nelle periferie, mensa per i poveri, adozioni a distanza, progetti per la salute e l’alimentazione, corridoi umanitari e quanto occorre per non lasciare solo chi ha bisogno.

Don Paolo Cristiano (nelle foto in alcuni momenti della sua attività e nella prima a sinistra al centro con Riccardi) è un sacerdote da sempre impegnato nel sociale, responsabile di Sant’Egidio in provincia di Frosinone che segue anche alcune comunità in Asia, soprattutto in Pakistan e nelle Filippine. Ci aiuta a conoscere meglio una realtà che si distingue per le risposte che fornisce alle urgenze dei nostri tempi.

Come si può sintetizzare l’opera della Comunità di Sant’Egidio in questi lunghi anni?

Sicuramente con la sintesi che ha fatto Papa Francesco in una delle sue visite alla Comunità: preghiera, poveri e pace. La preghiera è il primo riferimento. Le chiese di Roma e di ogni parte del mondo sono ogni giorno luogo di incontro e di accoglienza per chi voglia ascoltare la Parola di Dio.  I poveri sono le persone verso le quali è indirizzato il nostro impegno. Quando Riccardi fondò la Comunità, come primo contatto andò a visitare i baraccati a Ponte Marconi dove vivevano nell’abbandono famiglie italiane, soprattutto meridionali, che non avevano nulla, emarginate perché parlavano solo il dialetto e chiedevano aiuto. Infine, partendo dal fatto che la guerra è considerata la madre di ogni povertà, la Comunità ha voluto lavorare per la pace, impegnandosi per ristabilirla attraverso il dialogo e la ricerca continua di fraternità.

Chi è il povero di oggi?

E’ la persona che, oltre a non avere risorse materiali, vive il dramma della solitudine, un fenomeno che va studiato e approfondito, che non può essere semplificato perché ognuno ha le sue esigenze. E’ il bambino che chiede di vivere nella pace, è l’anziano che non ha assistenza, è lo straniero che scappa dalle guerre, ma anche dalle catastrofi ambientali. Quello che dispiace è la memoria cortissima della nostra società. Gli italiani baraccati di Ponte Marconi sono i migranti di oggi, accusati ed emarginati per gli stessi motivi. 

Come sono organizzate le vostre strutture nel mondo? E quali sono i progetti principali che si portano avanti?

Le strutture sono gestite da persone del luogo per facilitare i rapporti con le popolazioni, da Roma ci si occupa della formazione e del coordinamento. Tra i progetti, molto importante in Africa è il Dream ( “Disease Relief through Excellent and Advanced Means” cioè “Liberazione dalle malattie attraverso mezzi avanzati ed eccellenti”) che cura le madri sieropositive per evitare la trasmissione dell’Aids ai neonati, bambini che vengono seguiti anche durante la crescita con programmi di alimentazione e scolastici.

La Comunità di Sant’ Egidio significa anche esaltazione del volontariato. Quali persone, oggi, si impegnano in questo importante ruolo?

A noi non piace molto dire volontari, preferiamo indicarli come amici della Comunità che si mettono a disposizione. Sono professionisti, studenti, madri di famiglia che si ritagliano una porzione di cuore per chi ha bisogno. A Frosinone, per fare degli esempi, si occupano molto degli anziani che vivono nelle case di riposo, spesso senza nessuno che vada a trovarli, cercando di ricostruire una rete di solidarietà, portando il calore dove manca, la vicinanza dove c’è la solitudine, ricostruendo le reti sociali dove sono sfibrate, superando l’individualismo.

Oggi, però, la società sta attraversando un momento di incattivimento, persino di odio. Come si muove, un’organizzazione come la vostra, in un clima così avvelenato?

Noi in questo clima ci viviamo dentro. Non abbiamo un approccio ideologico a tali problematiche, ma sappiamo che nella storia (e il nostro fondatore Riccardi è uno storico) i muri non hanno mai portato bene, oltre ad essere anacronistici tanto che sono caduti dappertutto. Percepiamo la rabbia e la paura e sappiamo anche che non si può trasferire tutto il continente africano. E’ necessario, quindi, trovare risposte ad ampio raggio, soluzioni che coniughino la sicurezza dei cittadini e il diritto di voler scappare dalle guerre. E’ in questo contesto che la Comunità di Sant’Egidio ha ideato i corridoi umanitari, una soluzione che permette di verificare chi ha davvero l’esigenza di fuggire da posti dove non è possibile vivere, farli viaggiare su voli di linea eliminando così il rischio di pagare i trafficanti di esseri umani e farli arrivare inseriti già in un progetto di accoglienza non a carico dello Stato. Un modello che funziona.

A Frosinone, dove opera don Paolo Cristiano, la Comunità fondata da Andrea Riccardi è nata dieci anni fa. Due volte a settimana funziona la mensa per i poveri, presso l’ex ospedale, ed è attivo un movimento giovanile formato da studenti liceali. Sabato 19 gennaio, alle ore 17, nella chiesa del Sacro Cuore è in programma un incontro per il 50esimo anniversario della fondazione della Comunità con la presenza del vescovo diocesano, monsignor Ambrogio Spreafico.

La poetessa degli angeli

Sono gli angeli i simboli ricorrenti delle poesie di Umbertina Di Stefano, di Ceccano (Frosinone), autodidatta e innamorata della rima. Il suo primo libro è stato, nel 2013, “L’angelo che prestò le ali ad una Fenice”, ora ha dato alle stampe “Un angelo senza memorie” prodotto dalla casa editrice Il Viandante di Arturo Bernava. La presentazione ufficiale si è tenuta lo scorso novembre a Ceccano con la partecipazione degli attori Anna Mingarelli, che ha recitato le poesie, e Vincenzo Bocciarelli. La copertina del libro è stata realizzata dalla figlia dell’autrice, Valeria Selvini, che insieme al fratello Andrea sostiene in tutto l’attività di Umbertina.

Perché gli angeli? Chi sono per te?

A parte una conoscenza degli angeli fatta sui libri, in realtà per me sono le persone comuni, le brave persone, quelle che quando le incontri facilitano la vita. Tutte le mie esperienze quotidiane finiscono nelle scrittura, anche questo libro è autobiografico.

Quali sono i temi che tratti con le tue poesie?

Gli argomenti sono svariati, ho sempre parlato di tutto e anche di temi duri come, ad esempio, il mobbing sul lavoro. Essendo una donna, non mancano i riferimenti all’amore.

Come accoglie i tuoi lavori chi ti legge?

Sono molto contenta del fatto che arriva soprattutto la semplicità, perché posso anche scrivere con termini ricercati ma sono una persona molto semplice e questo viene apprezzato. Noto, inoltre, che la gente si riconosce nei temi che rappresento, fa davvero piacere.

Come è iniziata la tua passione per la poesia?

In un modo molto semplice. Mi piaceva scrivere biglietti auguri personalizzati, in rima perché ho sempre amato la rima. Un amico medico ha apprezzato molto questo modo di esprimermi e mi ha spronato a scrivere. Il primo libro, infatti, è stato soprattutto un’occasione per ringraziare lui e quanti mi hanno sollecitato in tal senso. Poi ho continuato cercando anche di fare cose nuove. In questo libro, infatti, ho scritto qualche poesia in dialetto, e non è facile, ma mi piace mettermi in gioco.


Sua Maestà il cioccolato

Ha compiuto da poco 25 anni ed è una delle kermesse italiane di eccellenza più amate. Protagonista il cioccolato, simbolo di voluttuosa bontà ed emblema del peccato di gola. Dal 1994 Perugia ospita il Festival Internazionale Eurochocolate, grazie all’intuizione dell’architetto Eugenio Guarducci (nella foto in basso a sinistra), 55 anni, che oggi ne è presidente. Nato a Perugia, ha voluto portare nella sua città – ispirandosi all’Oktober Fest di Monaco – una manifestazione che in poco tempo è diventata punto di riferimento dei cioccolatieri più creativi.

Sulla scorta del successo di Eurochocolate, Guarducci ha inventato successivamente Cioccolatò a Torino e ChocoModica a Modica, riuscendo a promuovere questo prodotto unico da metà ottobre a metà dicembre, e numerosi eventi collegati. Lo incontro mentre si prepara ad esportare la sua creatura in Giappone e in altre parti del mondo.

Come nasce la sua passione per il cioccolato tanto da sceglierlo come tema del Festival Internazionale di Perugia e di altre kermesse di successo?

Come tante persone della mia generazione ho il ricordo indelebile del profumo di cioccolato che invadeva i binari della stazione ferroviaria di Fontivegge dove a poche decine di metri si elevavano le mura della Perugina.  Questa memoria olfattiva è stata determinante nel costruire quel percorso che mi ha portato prima alla ideazione e poi all’organizzazione di Eurochocolate.

Diamo qualche numero su  Eurochocolate, Cioccolatò e ChocoModica relativo alle presenze e alla quantità di cioccolato assaggiato dai visitatori.

Sono eventi che come caratteristica comune hanno quella di svolgersi all’aperto e non in contenitori fieristici, pertanto possiamo soltanto parlare di stime. Al primo posto senz’altro Eurochocolate che ogni anno ad ottobre richiama in dieci giorni circa 800.000/1.000.000 di persone. Subito dopo viene Torino con una stima di circa 400.000 visitatori distribuiti sempre in dieci giorni di evento nella seconda decade di novembre ed infine Modica dove nei tradizionali 4 giorni collocati a ridosso della Festa dell’Immacolata si ritrovano circa 60.000 persone. Ancora più complicato una stima sulla quantità di prodotto che viene venduta e omaggiata. Parliamo comunque di tonnellate!!!

Grazie ad Eurochocolate sono nati anche progetti con le organizzazioni equosolidali. Di cosa si tratta?

Eurochocolate ha sempre cercato di dare voce e spazio alle tematiche equosolidali relative al comparto Cacao/Cioccolato. Lo ha fatto interagendo con importanti player internazionali a partire da Fair Trade ed in stretto collegamento con i protagonisti delle filiere produttive dei principali paesi produttori del Cibo degli Dei. Questo ruolo ha avuto un grande risalto in occasione di Expo 2015 dove Eurochocolate ha gestito il Cluster Cacao e Cioccolato per tutta la durata dell’esposizione internazionale.

Ha nuovi progetti in cantiere?

Dopo aver celebrato i 25 anni dalla nascita di Eurochocolate vogliamo svolgere il nostro sguardo verso l’estero dove a nostro avviso Eurochocolate merita di poter essere esportato come format. In questa direzione nasce quindi il primo Eurochocolate Japan che si svolgerà ad Osaka dal 1 al 14 febbraio 2019. Altri progetti sono in corso di definizione in altri paesi del Far East, ma anche in America Latina. Nel frattempo continueremo ad investire su Perugia e in Trentino dove nel comprensorio Dolomiti Paganella si è svolta nel dicembre scorso la prima edizione di Eurochocolate Christmas.

Nuove sfide per il sindacato

Enrico Coppotelli (nella foto) è il nuovo segretario regionale Cisl del Lazio. A soli 37 anni assume un incarico di grande responsabilità che premia il suo impegno sul territorio con le battaglie portate avanti nel comprensorio di Frosinone (il sindacalista è originario di Ferentino) dove ha ricoperto anche la carica di responsabile provinciale.

Quali sono le sue linee guida da neo segretario regionale?

Più che le mie, le linee guida sono quelle della Cisl, della Segretaria Generale Annamaria Furlan e del Segretario Generale della Cisl del Lazio Paolo Terrinoni che ringrazio per avermi dato questa opportunità. Quella di lavorare in una dimensione regionale dove porterò il massimo impegno e la dedizione. Questa sarà anche una priorità.

Quali sono le principali vertenze in corso attualmente nel Lazio e quali preoccupano maggiormente?

Tra le deleghe assegnatemi, e quindi di mia competenza, ci sono le vertenze e punti di crisi in ambito regionale. Ogni territorio ha la sua peculiarità dove la crisi ha lasciato segni indelebili in particolare a Latina ed a Frosinone. Tra il 2008 e il 2016 il Pil del Lazio ha registrato una flessione doppia -6% rispetto alla Lombardia -3,3% e, nello stesso periodo, si è verificata a Roma una riduzione delle Spa -13% e un’esplosione della micro-impresa in settori a basso valore aggiunto e bassa densità di capitale come il commercio ambulante (+30%) e gli affittacamere (+150%). Si stanno perdendo posti di lavoro importanti e mentre nella grande città si riesce a riqualificarsi, in provincia si perde la speranza e il rischio isolamento è dietro l’angolo.

Il rapporto annuale Censis, recentemente evidenziato anche dal segretario generale Furlan, disegna un Paese alla deriva e senza speranze. Come è possibile invertire la rotta?

Gli italiani e le italiane sono oggi molto delusi e senza speranze, come dimostra il dato che il 90% delle persone con basso reddito sono convinte che la loro condizione non cambierà mai. Abbiamo visto sfiorire la ripresa economica, sono cresciute le diseguaglianze sociali e l’emarginazione sociale, i redditi ed i salari sono pressoché fermi, i giovani vanno a cercare lavoro all’estero come negli anni Cinquanta. E’ un paese che fa molta fatica a crescere, che si affida solo ad internet ed ai social network per vincere la solitudine. Ecco perché non c’è altra strada che ripartire, con decisione e con provvedimenti straordinari, dalla crescita, dal lavoro e quindi dagli investimenti pubblici e privati, scommettendo sulla formazione e sulla scuola per ricostruire un patto sociale fra le generazioni e le diverse aree del Paese. Il lavoro è lo strumento per ridare fiducia alla gente oggi sempre più incattivita e pessimista sul futuro, soprattutto per una serie di promesse disattese della politica. In un contesto mondiale in cui tutto sembra volgere a favore dei giovani, l’avanzamento tecnologico, la predisposizione alla flessibilità, la sfida delle nuove competenze per un’industria 4.0, l’Italia si configura come un’anomalia. Le scelte politiche compiute in diversi campi, dall’istruzione alle riforme del lavoro, dalle politiche per diminuire il gender gap al welfare, non hanno favorito la stabilizzazione dei giovani italiani nel mercato, anzi hanno aumentato la distanza tra scuola e lavoro, accrescendo a tal punto la sfiducia nei confronti della formazione.

Reddito di cittadinanza: un percorso per migliorare la qualità della vita e inserire nel mondo del lavoro o il solito intervento assistenzialista?

Combattere la povertà è una priorità, ma il lavoro non si crea con sussidi. Inoltre non è ancora definita la platea e soprattutto questo rapporto tra reddito di cittadinanza e lavoro, per noi indispensabile, non si capisce ancora come si può realizzare. I nostri giovani chiedono anzitutto il lavoro, lo chiede il nostro Paese. Infine investire sui Centri per l’impiego è molto importante, ma può rivelarsi inutile se poi non ci sono posti di lavoro da offrire. E questo è il rischio che vogliamo evitare.

Il vero problema è l’assenza di lavoro. Cosa si dovrebbe fare per crescere da questo punto di vista?

Siamo preoccupati per la bassa crescita e per gli indicatori economici che dimostrano un rallentamento della ripresa della produzione industriale e dell’occupazione. Rischiamo di tornare indietro. Per noi la priorità è come far ripartire il trend economico ed il tema delle infrastrutture è nodale: ci sono 27 miliardi di risorse disponibili e decine di opere pubbliche bloccate in attesa dell’analisi costi benefici che tarda ad arrivare. Poi il fisco, focale per rafforzare i salari e le pensioni. La flat tax deve pensare anche a tagliare le tasse al lavoro dipendente per stimolare i consumi.

Quale è il ruolo del sindacato in una società che evolve continuamente e non sempre in meglio?

  La necessità di concentrare l’attenzione e gli investimenti sia organizzativi che finanziari, sul tema delle competenze dei lavoratori è stata indicata dal sindacato e dalla Cisl in particolare, come una priorità. Riguardo al tema Impresa 4.0, due questioni oggi ci sembrano imprescindibili affinché il nostro Paese possa giocare un ruolo competitivo a livello globale: la costruzione di una rete infrastrutturale per la banda larga e ultra larga, investimenti significativi per migliorare e ampliare le necessarie competenze e le nuove abilità. Il tema delle competenze andrebbe approcciato almeno su due fronti: quello scolastico, ricomprendendo i diversi livelli formativi e dando impulso a seri progetti di alternanza scuola-lavoro e quello dell’aggiornamento professionale di chi già lavora, con l’obiettivo di minimizzare la cosiddetta disoccupazione tecnologica. Difendere il lavoratore non solo nel posto di lavoro, ma nel percorso di lavoro è la vera sfida del Sindacato nei prossimi anni.

Io, Francis e gli scialatielli

Alfredo Colle ha conquistato il titolo di cuoco regionale più bravo di Italia

Alfredo Colle

Scialatielli  ai frutti di mare e parmigiana di melanzane con sgombro. Sono i piatti capolavoro che hanno permesso ad Alfredo Colle, della Campania, di diventare lo chef regionale più bravo di Italia nella trasmissione condotta da Alessandro Borghese su TV8. A “Cuochi di Italia”, Alfredo Colle ha conquistato i giudici “stellati” Gennaro Esposito e Cristiano Tomei, ma soprattutto il pubblico televisivo per la sua simpatia e per la sua umiltà. Una caratteristica, quest’ultima, che Colle ritiene indispensabile, insieme all’amore e alla passione per il cibo, per essere un buon cuoco. 46 anni, nato a Napoli e cresciuto a Pozzuoli, lo chef (che però preferisce definirsi “un cuoco che ama il suo lavoro”) è tornato in Italia da poco (per amore!) dopo lunghi anni di esperienza nelle cucine di Parigi, Singapore e degli Stati Uniti dove è stato per quattro anni il personal chef del grande regista Francis Ford Coppola. Lo incontro mentre si trova a Milano, dove attualmente lavora per la catena di ristoranti “Grill Inn Store Pogliano” diretta da Roberto Zanchetta, chef per venti anni degli stilisti Dolce e Gabbana.

La tua cucina ha risentito delle contaminazioni dei Paesi in cui hai lavorato?

Moltissimo, perché i prodotti italiani che giravano a quei tempi erano pochi, solo ultimamente la cultura della nostra cucina si è sviluppata all’estero.

Come valuti la tua esperienza all’estero? E’ molto diverso rispetto al lavoro in Italia?

Soprattutto gli Stati Uniti, dove sono stato per 14 anni senza mai tornare a casa, offrono molte opportunità lavorative se si vuole crescere professionalmente. Purtroppo, invece, in Italia si è solamente un numero. Ora però voglio concentrarmi e fare un salto di qualità, continuando ad imparare e a crescere.

La vittoria a “Cuochi di Italia” ti ha dato una grande visibilità. E’ stato importante per la tua professione?

 Mi sono messo in gioco, mi serviva perchè una volta tornato in Italia non mi sentivo apprezzato, ho avuto anche qualche umiliazione. Ma non mi sentivo forte, ho affrontato ogni prova con l’ansia, ci ho creduto davvero soltanto alla finale quando ho avuto volti alti per gli scialatielli. Ero lì per farmi giudicare, per imparare e ricevere critiche costruttive, non per diventare famoso. Sono uno che vola basso e quando ho pianto in trasmissione era commozione vera. Certo, mi ha fatto piacere essere riconosciuto e ricevere tanti complimenti dopo la trasmissione, ma è stata soltanto una bella esperienza, vado avanti con il mio lavoro mettendoci il cuore. Vedi, Daniela, quando io cucino mi immagino di essere a tavola con il cliente, che è al centro di tutte le mie attenzioni. Devo fare il possibile per farlo mangiare bene, questo è l’unico obiettivo.

Un tuo piatto creato di recente?

 La tartare di salmone marinato nella tequila con riso venere e riso con zafferano. La presenza di riso giallo e riso nero, che crea un forte contrasto, offre uno spettacolo anche per gli occhi. 

Quali sono i colleghi che apprezzi di più?

 I miei idoli sono Antonino Cannavacciuolo, Alessandro Borghese e Gennaro Esposito.

Cosa c’è nel futuro immediato dello chef Colle?

 Sto lavorando su alcuni progetti. Sono impegnato con “Campania Golosa”  che riguarda i prodotti tipici della mia terra e con l’amico  Roberto Zanchetta, che mi ha sempre aiutato molto, sto organizzando un viaggio negli Stati Uniti. Nei giorni scorsi mi sono sentito con persone con cui ho lavorato lì, è stato bello, mi hanno commosso quando hanno detto che mi aspettano… a casa.

E’ evidente che gli Usa sono rimasti nel tuo cuore. Ci torneresti a lavorare?

Mai dire mai, diciamo che ho lasciato una porta aperta.